107a Non m’arcordo… un orologio in Place dela Concorde, ovvero la storia d’una giraffe, due obelischi e un orologio
L’obelisco della Place dela Concorde? Vi siete mai chiesti come ha fatto ad arrivare fin li? Facciamo un passo indietro, anzi facciamone due o tre.
Quando alla fine del settecento Napoleone organizzò la grande spedizione per conquistare l’Egitto si portò dietro, oltre all’esercito, un folto gruppo di studiosi, linguisti, scienziati d’ogni genere ed artisti. Quest’ultimi, in un tempo senza macchine fotografiche, avevano l’incarico d’immortalare tutto quello che vedevano. Napoleone, che si era culturalmente formato seguendo i nuovi canoni dell’Illuminismo, sentiva il dovere non solo di conquistare militarmente l’Egitto, ma anche quello di conoscere, di imparare tutto quello che questa antica civiltà aveva già appreso e poteva offrire a quelle future.
E credo che questo non fosse mai successo prima nella storia e neanche dopo. Forse l’unico risultato positivo di questa spedizione che finì male, fu la pubblicazione d’una collana d’imponenti volumi: la “Description de l’Egypte”, ricchissima di magnifiche incisioni degli antichi monumenti, che fino allora erano quasi completamente sconosciuti in Europa sin dai tempi della conquista romana. Ancora non era arrivata la macchina fotografica. L’Europa scoprì l’Egitto e gli arabi-egiziani, che non avevano nulla a che fare con gli antichi egizi, non potevano credere che questi stranieri potessero essere interessati a tutte quelle pietre. Pensavano che fosse un messa in scena; erano convinti che cercassero solo ricchi tesori, ed in fondo non avevano del tutto torto.
Fra le immagini in uno di quei volumoni c’é anche quella del tempio di Amun-Ra a Tebe, oggi Luxor del XIII secolo A.C., uno dei tanti voluti da Ramses II. Un artista francese ne fece il disegno con i due obelischi che da 3000 anni ne ornavano l’ingresso, ma non per molto.
L’interesse, la curiosità per l’Egitto continuò a crescere in Europa, erano in molti quelli che cercavano di decifrare la Stele di Rosetta, ancora Champollion non aveva trovato la soluzione. I musei, i collezionisti privati erano affamati di statue, d’artefatti faraonici d’ogni genere ed anche di mummie, a queste venivano attributi poteri magici ed afrodisiaci.
E quì compare Bernardino Drovetti, un piemontese che era arrivato in Egitto con Napoleone e che quando venne il momento di partire con l’esercito sconfitto decise di rimanere. Un tipo intrigante e truffaldino, che spesso viene descritto come un dandy vanitoso, divenne poi console francese presso la corte del Kedivhé. Di certo non era un attento studioso e sensibile archeologo ma piuttosto un mercante di oggetti antichi, per non dire un tombaiolo, pronto ad usare tutti gli espedienti per soddisfare il crescente mercato ed ottenre il prezzo migliore. Si racconta che quando una volta trovò dodici splendidi vasi d’alabastro ne frantumò sei, in tal modo il prezzo degli altri sarebbe aumentao. Nel 1824 convinse Carlo Felice, re di Sardegna, di creare un Museo Egizio a Torino con i 5624 reperti che gli aveva venduto. Per lui trafugare era diventata una missione.
Il grande viaggiatore Giovanni Belzoni invece era un padovano dal fisico gigantesco ch’era finito prima a Londra e poi in Egitto per evitare la leva obbligatoria che Napoleone aveva imposto nelle regioni conquistate. Oltre ad essere un renitente alla leva divenne uno dei pionieri dell’archeologia egiziana ma lui era il tipo idealista, sperava solo d’esser riconosciuto per le sue scoperte. Al Cairo, dove era arrivato con la moglie Sarah, si mise al servizio del console inglese Henri Salt, anche questo trafficante di antichità. Proprio lavorando per lui fu capace di rimuovere un giganntesco busto di Ramesse II che si trovava nel tempio Ramesseum nei pressi d Tebe. Non fu un’impresa facile trasportare questa statua di sette tonnellate, che dopo un periglioso viaggio arrivò a Londra, dove divenne uno dei pezzi ancora fra i piú ammirati del British Museum.
Fu così che all’inizio dell’ottocento, nell’eterno mistero dei destini incrociati, due italiani si ritrovarono in Egitto: da un lato Drovetti che faceva la parte del francese e dall’altra Belzoni che faceva quella dell’inglese. L’ostilità fra di loro si trasmutò presto in guerra aperta.
Belzoni con la moglie Sarah furono i primi ad entrare nel tempio di Abu Sinbel. E fu sempre lui quello che scopri il corridoio segreto che conduceva alla cella funeraria all’interno della piramide di Chefren a Ghiza. Certo preso dall’euforia della sua scoperta prese della vernice, un pennellone e a lettere cubitali si autoimmortalò sul muro. Credo che sia l’unico caso nella storia in cui un grafito venga conservato ancor oggi come fosse un’opera d’arte.
Ma il rivale Drovetti non fu da meno. Alcuni anni fa, durante una mia visita al Metropolitan Museum, mi soffermai ad ammirare il tempietto di Dendur, che dalla Nubia era arrivato fino a New York. Questo era stato donato dal governo egiziano, come riconoscimento per i fondi americani offerti per sollevare i colossi di Abu Simbel. Se non l’avessero smontato e spedito sarebbe finito in fondo al gran lago formata dalla diga di Aswan. Ed in un muro di questo scoprii che Drovetti non s’era accontetato d’un pennello, lui s’era portato dietro uno scarpello. Immagino che, vanitoso com’era, sarebbe stato felicissimo di sapere che il suo nome immortalato nella pietra sarebbe arrivato fino a New York.
Belzoni, spirito inrequieto sempre pronto a nuove avventure, decise che doveva raggiungere una di quelle mitiche destinazione che da sempre aveva stimolato l’immaginazione di tanti ed aveva attirato la curiosità dei viaggiatori: Timbuctu. Forse conosceva i libri di Mongo Park e la sua ancora misteriosa sconparsa. Ma questa spedizione non ebbe successo, anzi finì tragicamente. Non raggiunse mai la meta e dopo tante perigliose avventure mori ingloriosamente di diarrea.
Drovetti rimase al Cairo, gli affari andavano bene ed era diventato anche confidente di Mohamed Ali Pasha (niente a che fare col pugile), un albanese della Macedonia semi-analfabeta con alle spalle una brillante carriera nell’esercito ottomano, si era ritrovato a comandare in Egitto. Si era autoproclamato Khedivé, una specie di viceré ed era riuscito con sistemi sbrigativi e brutali a rimettere un po’ d’ordine in Egitto dopo la partenza di Napoleone. La sua obbedienza al sultano di Costantinopoli era solo teorica.
Lui, che non imparò mai l’arabo, aveva anche deciso di modernizzare,
industrializzare l’Egitto e sopratutto sperava d’essere accettato alla pari fra i monarchi europei. Nell’equilibio politico di quei tempi, all’inizio del XIX secolo, a questi in fondo faceva comodo sostenere un nuovo potente capo che indebolisse ancora di piú il moribondo impero ottomanno. La situazione era un po’ piú complessa, c’era infatti in quel momento il movimento dell’indipendenza della Grecia, ma questo non é il momento d’entrare dei dettagli.
Ali decise che sarebbe stata una buon’idea fare un gesto amichevole nei confronti di Carlo X, re di Francia. Per attirare la sua attenzione decise di mandargli un regalo. Ma cosa si può regalare ad un re? E forse fu proprio il Drovetti, mettendo in atto il colpo di pubbliche relazione piú bizzarro del secolo, che venne fuori con una brillate idea: una giraffa! Si, il re di Francia aveva bisogno d’una giraffa, questa di certo non ce l’aveva.
E fu così che nell’ottobre del 1826 arrivò a Marsiglia da Alessandria una nave con a bordo una giraffa. Nessuno ne aveva mai vista una in Francia. Forse l’ultima che era arrivata in Europa era stata quella che un altro pasha aveva regalato a Lorenzo dei Medici ed anche questa fu al centro di tanta curiosotà quando arrivò a Firenze nel 1486. Forse Leonardo la vide.
La nostra dolce eroina dal passo lungo e dal collo lungo ed ondulante aveva anche un nome: Zarafa, che poi vuol dire giraffa in arabo. Questa giovane femmina era stata catturata in Sudan, vicino al confine con l’Abissinia, e dopo un viaggio di circa 3000km scendendo lungo il Nilo era arrivata fino ad Alessandria. E perché la stiva della nave era troppo bassa e non c’era spazio per lei di stare in piedi traversò il Mediterraneo con la testa che protrudeva fuori del gran buco che avevano tagliato nella tolda.
Immaginate la faccia sorpresa dei marsigliesi che andarono al porto per vedere questa strana altissima bestia quando scese a terra e cominciò a camminare lungo il molo, guidata dai suoi guardiani vestiti all’orientale, e sentire i loro commenti.
Questa si che sarebbe stata una scena che avrei voluto vedere in Youtube! Peccato, non avevano ancora inventato la video-camera.
… il viaggio continua…
2 maggio 2012, Marblehead, MA USA
ftbraganti@verizon.net
Facebook: Fausto Braganti
Skype: Biturgus (de rado)
Rispondi