015 M’Arcordo… quando s’andava al licite.

                                                          (Argomento un po’ delicato, leggete a vostro rischio)

I citti e le citte più grandi se n’arcordano, ‘na volta s’andeva (o se giva) al licite!                              LICITE: nome proprio, derivante da radice classica, che i nostri nonni usavano per indicare il gabinetto. Dal latino “licet” ovvero “è permesso”. Per gli antichi romani indicava il posto dove era permesso farla; questi infatti tenevano all’igiene e cercavano di limitare gli scarichi fisiologici a siti specifici; Roma aveva piu d’un milione d’abitanti, cosi crearono regolamentazioni per controllare la situazione degli scarichi vari.                                                                                                                                                                        L’ispirazione, si fa per dire, di questo “m’arcordo” è nata da un messaggio ricevuto da un lettore, che mi ha raccontato d’una conversazione avuta con un nostro amico comune; sappiate che quasta, nonostante l’argomento un po’ particolare, si è svolta  in un ristorante del Borgo:                                                                                                                                                                                                                                                                                  <<Abitando lui al terzo piano in Via G. Buitoni aveva il licite a buca con la canna di scarico lunghissima, sicchè quando la faceva doveva farla in fretta perchè, il bisogno cadendo dall’alto andava a rompere letteralmente lo strato superficiale del deposito, provocando esalazioni che, se stavi troppo a richiudere la buca, facevano diventare gli occhi rossi.>> descrizione chiara d’una realtá che dovevamo confrontare ogni giorno.  

                                                                                                                                                                   Come ormai sapete i miei ricordi si focalizzano per il momento al periodo che va dal 1945 al 1968, ma con un interesse particolare nel periodo subito dopo guerra.                                                                                                                                                                                                             A quel tempo si stava quasi tutti ben ammucchiati entro le mura del Borgo, e a parte cani e gatti c’erano anche molti polli e conigli. Si diceva che c’era qualcuno che aveva anche un maiale, ma non ho prove. Le case fuori delle porte, a parte quelle dei contadini sparpagliate per la campagna, non erano molte. C’erano vari tipi di gabinetti: credo che la grandissima maggioranza erano ancora quelli, come quel licite descritto dall’amico, dove in un piccolo stanzino, che quasi sempre aveva una finestrella, ci si sedeva su una tavola di legno con un buco, che si chiudeva con un tappo con un manico, dal quale partiva un tubo lungo e più o meno diritto che convogliava i bisogni direttamente nel pozzo nero. Questa era una cisterna chiusa, sepolta nel sottosuolo, che in quelche modo limitava il fetore, se il tappo era ben fatto.C’era stato un sostanziale miglioramento rispetto al chiassetto, fogna a cielo aperto, dove precipita il malavventurato Andreuccio da Perugia nella sua boccacesca avventura a Napoli. Berlusconi non aveva ancora risolto il problema partenopeo. Spesso queste stanzette erano state aggiunte successivamente alla costruzine della casa e cosi si vedevono sporgere, come delle garritte, sul muro esterno dell’edificio. E a seconda della loro posizione potevano diventare forni d’estate e frigoriferi d’inverno. Alcuni anni fa, camminando per le viuzze della vecchia Lucca, notai questo grattacielo di liciti, mi sembra di siano addirittura cinque. Avevo un amico, anche lui abitava in Via Giovanni Buitoni, che aveva un licite con due buchi; immagino si potevano avere delle sedute congiunte.              Poi  c’erano quelli con il buco per terra, bianchi d’una specie di porcellana con la forma di dove dovevamo mettere i piedi per esser sicuri di centrare il bersaglio, quando ci si accovacciava. Credo che fossero detti alla turca, spesso avevano lo sciacquone con la catenella. Credo che questi fossero usati quasi esclusivamente nei luoghi pubblici, scuole, bar, ristoranti ed uffici. Mi sembra di ricordare che al Borgo c’erano un paio di bar che ce l’avevano fin a non molto tempo fa; non ho controllato, forse ci sono ancora. Sarebbe interessante avere un aggiornamento della situazione. Infine c’erano i gabinetti con la tazza bianca e lo sciacquone, sempre con la catenella e spesso con una bella manopala di porcellana bianca, chiamati vaterclose. Ma non credo che nel dopoguerra ce ne fossero ancora molti. e proprio il vaterclose indicava il successo economico-sociale della famiglia che lo possedeva. Nella casa dove son cresciuto in Via della Fiorenzuola c’erano tutti e tre. Il padrone di casa che stava al primo e al secondo piano aveva un vero bagno con la vasca e la tazza con lo sciacquone, noi inquilini al terzo piano avevamo ancora un licite in una stanzetto appiccicata alla casa e niente vasca. Si faceva il bagno nella tinozza in cucina, una volta alla settimana, il sabato pomeriggio. Il buco nero del licite non era solo fetido, mi faceva anche paura, come se temessi di cascarci dentro. Il tappo aveva un bel manico d’ottone. Questa casa aveva l’orto, ed in un lato c’era un piccolo magazzino con un altro gabinetto, uno di quelli bianchi col buco per terra alla turca. Per questo noi ragazzi che si giocava nell’orto avevamo ricevuto direttive precise: ci si poteva fare solo la pipi, lo sciacquone non funzionava.                                                                               

La mia famiglia aveva fatto un passo indietro. Venivamo dal Palazzo delle Laudi, dove sono nato ma di cui non ho memorie, e li avevamo tutto: la vasca con l’acqua calda, il vaterclose, ed c’era una caldaia a carbone ed il riscaldamento con i radiatori. Nel nuovo appartamento c’era il licite, la stufa in cucina, un piccolo caminetto in salotto e d’inverno il prete nel letto con lo scaldino e la borsa con l’acqua calda. E poi venivano i geloni.                                                                                                                                                                                                                   Le case coloniche spesso non avevano niente, eccetto uno sgabuzzino fuori, quasi sempre per ovvie ragioni, vicino alla cocimaia, con una tavola di legno con buco sopra un pozza di liquame. Credo che per secoli ricchi e poveri abbiano usato vasi da notte. C’e’ una bella descrizione nel “Gattopardo”. Versailles fu costruito con centinaia di stanze, sale e saloni, scalinate, viali, giardini immensi con fontane e giochi d’acqua e neanche un gabinetto.                             

 Parliamo di carta igienica. La carta igienica costava, quindi era più economico usare la carta dei vecchi giornali. Probabilmente non salutare per l’alto contenuto di piombo dell’inchiostro. Noi avevamo un tavoletta di legno appesa al muro con un lungo chiodo sporgente nel quale venivani infilzati dei pezzetti di giornali piu o meno quadrati. Mi piaceva leggere quei brandelli di notizie di cui spesso non si sapeva ne l’inizio ne la fine della storia. A questo proposito l’amico Massimo mi raccontù che, durante una sua seduta in uno sperduto paesino del Guatemala (o forse era in Messico), si mise a leggere un pezzo del giornale in spagnolo, e così apprese che il direttore d’orchestra di Bolzano, o forse era Merano, era stato sostituito. Notizia importantissima per i campesinos guatemaltechi.             

Quando nel 1957 ci siamo trasferiti nell’appartamento in Piazza Beccari, case della cooperativa dipendenti della Buitoni, avevamo non solo il vaterclose e la vasca da bagno con la doccia a telefono, ma anche il bidet con lo zappillo nel mezzo. Poi quando vidi che avevamo il rotolo della carta igienica come in un albergo, ebbi la conferma che le cose erano cambiate per il meglio.                                                                                                                                              

Credo che l’ultimo licite che ho usato sia stato a Firenze, nei primi anni dell’universitá, quando abitavo in casa della signora Brusa in Via Borgo Pinti.                                   

Nei miei vari viaggio ho scoperto interessanti soluzioni al problema. Il villagio di Bananì, nel paese dei Dogon (Mali), come molti altri si erige lungo i dirupi di una scogliera. L’alloggiamento disponibile, costruito col fango (banko), era una serie di camerette, intorno ad una piccola corte, senza porte e senza mobili, eccetto una stuoia di paglia da srotolare sul pavimento di terra battuta. Nonostante il suo aspetto primitivo era ben spazzato e molto pulito. Il “bagno”, in un angolo, sulla destra della foto ma non si vede veramente, lontano dal resto, al bordo d’un precipizio, era uno spazio recintato di stuoie e senza tetto, come quelli dove si tengono le pecore. Non c’era nessuna serratura sulla porta di vimini. La doccia era un secchio con il fondo sbucherellato, appeso ad un palo a forca. Il gabinetto era una specie di ballatoio di legno che si protrudeva nel vuoto, con un buco nel pavimento, così i bisogni precipitavano nell’abisso! Non era maleodarente, cadevano cosi lontano, ma faceva un po’ paura, c’era il timore che il tutto crollasse. Ho trovato una simile soluzione, con un buco che precipitava tutto in un precipizio, in una torre d’un monastero buddista in Ladakh nelle montagne dell’Himalaya, ma qui c’era il tetto ed una vera porta, anche perchè in inverno i monaci corrono il rischio di diventare pincaroli.  Concludo con un semplice suggerimento, quando si viaggia e bene portarsi dietro un rotolo di carta o tanti fazzolettini di carta, non si sa mai dove il destino ci porta.

PS: tanti anni fa trovai a Londra un libro dall’emblematico titolo “Flash it with Pride” (ovvero “Tira lo Sciacquone con Fierezza”). Era un vero trattato storico sull’evoluzione del waterclosed, ed una lista dei gabinetti pubblichi più interssanti di Londra. Non so dove questo libro sia andato a finire.

Nel tempo ho collezionato immagini di gabinetti per me memorabili, eccone due:

 Leh, Ladakh (Kashmir – India) un vero licite

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                           Castello di Al Azraq (Giordania). Questo è il castello dove Lawrence d’Arabia svernò prima d’attaccare Damasco (1918). Penso sia un edificio successivo. Dovevano avere tante pietre in giro che l’hanno usate per costruirlo: sembra una di quelle cassamatte erette dai tedeschi in Normandia.

 

 

 

 

 

 

 

 

e ecco cosa ha trovato un Borghese in mezzo alla Siberia.

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 8 settembre 2008, Marblehead, MA USA                                                                                        

I  vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete!

Fausto Braganti      

ftbraganti@verizon.net

Una Risposta to “015 M’Arcordo… quando s’andava al licite.”

  1. guido mercati Says:

    Un particolare voglio aggiungere alle ben più minuziose e storicamente interessanti descrizioni del Braganti . Gli orti nelle case dentro le mura, che erano bellissimi , la mia casa vicino a Gerasmo non ne aveva ma m’arcordo tra tanti di tre orti , uno nella casa di un mio compagno delle elementari in via mazzini dove spesso giocavamo , un altro enorme nella casa di fianco alla porta del castello ed un terzo in fondo a via degli aggiunti molto dopo la misericordia, tutti ricchi di primizie.

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