018 M’Arcordo……quando s’andava al mare – prima puntata.
Sono stato fortunato. M’arcordo la prima volta che ho visto il mare, ed ancora oggi, dopo sessant’anni rivivo quel momento magico: l’emozione di scoprirne l’immensitá, e pensare che ero solo a Riccione. Era l’estate del 1947. Molto tempo dopo avrei scoperto la vera, ed anche paurosa, grandezza dell’oceano.
Il fronte era passato e la guerra era finita. Le truppe polacche furono le ultime a partire. La vita cercava di ritrovare un suo nuov equilibrio. So che mio padre lavorava moltissimo, come tanti altri nel ricostruire lo stablimento Buitoni. Un giorno mi fu annunciato che saremmo andati in vacanza al mare. Il sole, la salsedine e lo iodio mi avrebbero fatto bene.
Come si vede nella classica foto, seduto sul moscone con la mi’ mamma, ero gracilino ed anche boccuccia: non mi piaceva niente ed c’era una battaglia ad ogni pasto. Al mare c’era lo iodio, ma poi che cos’era? Speravo che non fosse niente da mangiare o da bere cattivo come l’olio di fegato di merluzzo. Il rituale della cucchiata d’olio prima dei pasti era una tortura terribile!
Avevano riaperto le colonie estive per i figli dei dipendenti Buitoni. Avevo sentito dire che i bambini venivano mandati alle colonie da soli: la mamma non c’era. Avevo paura d’esserne separato: non solo ero gracilino e boccuccia, ma ero figlio unico e mammone. Saremmo andati in una pensione che era stata rilevata da gente del Borgo e credo che avesse a che fare con gli operai ed impiegati Buitoni. Per anni siamo andati, anche se in località differenti, in questo tipo di pensione. Non so come funzionava ma so che c’erano sempre tanta gente del Borgo ed amici che conoscevamo.
Finalmente venne il giorno della partenza, e per me fu un viaggio emozionante, epico ed allo stesso tempo ero eccitato e tranquillo, c’era la mamma. Il babbo armaneva al Borgo a lavorare, sarebbe venuto a trovarci la domenica. Questo fu il mio primo grande viaggio. Ero stato a Gubbio varie volte a trovare gli zii, ma non ne ho delle vere memorie. Era l’inizio d’una grande avventura.
Partimmo dal Viale della Stazione, credo col Baschetti; quando vidi che salivano anche i bambini che andavano alla colonia mi innervosii, Ma mia madre mi rassicuró, non mi avrebbe lasciato. La corriera era affolatissima, infatti avevano agganciato degli strapuntini lungo il corridoio, cosi una volta seduto eri incastrato, non ti potevi piu muoveri. La strada di Viamaggio per poi scendere verso Badia Tedalda era ancora sterrata, e lo sarebbe stata ancora per molti anni. Credo che alcuni ponti fossero ancora distrutti, cosi avevano costruito le cosidette varienti. Queste permettevano di scendere dalla sponda sul letto del fiume, in estate sempre secco, traversarlo, per poi risalire dall’altre parte, dove la strada ricominciava. Non so dove, ma ad un certo punto che doveva essere pericoloso, ci hanno fatto scendere e cosi abbiamo traversato il fiume sassoso a piedi, per poi raggiungere l’altra sponda. Il viaggio e’ stato lungo ed era caldissimo e ci sono stati quelli che hanno vomitato. Mi sembró buffissimo il nome d’un paese dove ci fermammo:Pennabilli.
Alla fine siamo arrivati a Villa Rosa a Riccione. Era un vecchio albergo elegante sotto grandi pini, in parte ancora distrutto. Io mi guardavo intorno, esplorando tutto con lo sguardo del curioso e continuavo a chiedere a mia madre: “Ma dov’é il mare?” ancora non l’avevo visto.
Nel pomeriggio arrivó il gran momento:
“Andiamo al mare!” disse la mamma. Forse l’avevo visto al cinema, forse l’avevo visto in fotografia, sapevo che c’era tanta, tanta acqua, ma non riuscivo ad immaginarmelo. Non abbiamo camminato molto, poi all’improvviso vidi delle barche, tutte in fila, una accanto all’altra. Al Borgo non ce n’erano, le avevo viste solo nei libri. Il Medici mi aveva fatto una barchetta di legno che facevo navigare in una catinella.
“Se ci sono le barche, ci deve essere l’acqua.” Pensavo io. Dopo esserci avvicinati ho visto dove galleggiavano, erano legate lungo i lati di una specie di gran quadrato, sembrava una piazza piena d’acqua, che mi sembrava sporca. Ecco il mare! Ero deluso, mi sembrò piccolo e maleodorante.
“Questo é il porto.” Precisó mia madre, che non si era accorta dell mia delusione.
“Ma allora, dov’é il mare?”
“Il mare? Eccolo là!” puntando la mano davanti a noi. Ho sollevato la testa ed ho guardato, e li c’era il mare: il mare, quello vero, che si apriva nella sua immensità, che riempiva tutto l’orizzonte. Non potevo credere, era cosi grande, sembrava infinito e solo la spiaggia sabbiosa mi separava. Dopo un momento d’incanto, ho lasciato la mano di mia madre e ho cominciato a correre, mi volevo avvicinare, forse lo volevo toccare. Ho ancora oggi, dopo tanto tempo, un’immagine chiarissima di quel momento, di quella mia corsa verso l’acqua, di mia madre che mi inseguiva gridando di fermarmi, forse temeva che mi ci gettassi dentro. E poi mi son fermato, ma solo quando i miei piedi si son bagnati sull’Adriatico. Ero felice, avevo toccato il mare.
Così cominció la vacanza balneare, che più o meno si é ripetuta per le successive 15 estati. In questi anni son passato dal costruire castelli e piste di sabbia, giocare al giro d’Italia, a cercar di rimorchiare le straniere, in verità ho avuto più successo nelle costruzioni, ma andiamo in ordine.
La routine era precisa, oserei dire codificata. Dopo la colazione s’andava alla spiaggia e mentre le mamme si abbronzavano chiacchierando, noi si giocava, e come ho già detto, costruire castelli e piste per far il giro d’Italia con le palline era l’attività principale. La mia geniale idea di far vulcani, un cono di sabbia con un buco orizzontale alla base che si riempiva di cartacce ed un verticale al centro che fungeva da camino, non ebbe gran successo fra gli altri villeggianti. Il pennacchio di fumo puzzolente, di cui ero tanto orgoglioso, non era stato di lor gradimento. Fini così sul nascere la mia carriera di vulcaniere.
Verso le undici potevo fare il bagno, sotto l’attentissimo sguardo della mamma. Non sapevo ancora nuotare e così rimenevo dove l’acqua era bassisima. La mamma non si è dimenticata di pettinarmi, e come al solito con tanta brillantina,
Dopo il bagno la mamma mi offriva un frutto e qualche cosa da bere. Poi mi sdraivo al sole ma solo per un breve periodo per non bruciarmi. Verso le 12:30 si tornava alla pensione per pranzo. La miglior parte dei pasti in pensione erano le cameriere. Ricordo solo ragazze bellissime che si muovevano veloci fra i tavoli. Spesso c’erano citte del Borgo che venivano per l’estate. Il mangiare era buono e casarreccio, per anni la cuoca è stata la Cesira, la stessa cuoca che avevamo avuto quando s’abitava al Palazzo delle Laudi. Non mi piaceva il pane romagnolo.
Nel pomeriggio dopo l’obbligatorio pisolino, che odiavo tanto, era una tale perdita di tempo, si ritornava al mare. Non potevo mettere neanche un piede a mollo per almeno due ore dopo aver mangiato. Dovevo digerire! Credo che se l’avessi fatto serei morto immediatamente. Soliti giochi, passeggiate lungo il bagnasciuga, e poi un altro bagno, sempre con la mamma vicina e con l’asciugamano pronto. Verso le 19:00 si rientrava per cena. Dopo cena spesso si passeggiava nel viale lungomare, dove c’erano tanti bar, negozi e gelaterie, e se avevo fatto il buono potevo avere un bel cono. Alla fine tutti a letto.
In quei primissimi anni del dopoguerra per risparmiare, condividevamo la camera con altra gente, sempre intimi amici di famiglia. Un anno ho dormito nel letto con un altro bambino. Il grande vantaggio era che con me c’erano amici del Borgo con cui giocare. Poi c’erano nuovi amici, come i Caporali. e loro erano tanti, che venivano da Milano. Il loro babbo era originario del Borgo ed amico del mio, così ogni estate sapevo che sarebero stati all’appuntamento.
Nell’arco di 15 anni siamo stati a Riccione, Miramare, Cattolica, Gabicce e Rivazzurra e la spiaggia sabbiosa era sempre uguale. Nel 1947 c’era ancora poca gente ed una fila d’obbrelloni era più che sufficente. C’erano dei barrettini che vendevano bibite, bomboloni, gelati ecc. e c’erano i biliardini, ma io ero troppo piccolo per giocare e mi dovevo accontentere a guardare i grandi. I flippers e i juke boxes sono arrivati anni dopo. Lungo la spiaggia fotografi e ambulanti di gelati e di paste erano in continuo movimento, alla ricerca di clienti.
La prima parte della spiaggia, dal lato dove vi ci accedeva, più lontana dal mare, vicino al muretto che la separava dalle prime costruzioni, la sabbia diventava molto più calda, anzi sembrava infuacata. Li c’era il cimitero dei sepolti vivi: era il posto dove facevano le sabbiature. Verso mezzogiorno c’erano quelli che si facevano coprire con cumolo di sabbia bollente per espellere i veleni del corpo: cura sicura per curare i reumatismi. Ricordo sempre donne ciccione che uscivano ansimando dalla tomba, coperte di sabbia appiccicata alla pelle per il gran sudore. Mi domando se le sabbiature sono ancora di moda. Fatemelo sapero.
Poi c’erano gli scarabei, quelli neri che si affaticano tanto rotolando una pallina di cacca. Fu una grande scoperta, non era facile trovarli e era meglio se si andava alla spiaggia presto la mattina. Non ricordo quando li vidi la prima volta, ma so che poi li cercavo. Stavano nel lato della posteriore della spiaggia, dove più tardi sarebbero venuti quelli delle sabbiature. Esploravo, ero sempre alla ricerca d’un tracciato di piccole impronte sulla sabbia. Se lo inseguivo nella direzione giusta, avrei trovato lo scarabeo, che con erculea forza rotolava la sua preziosa pallina. Non ho mai saputo dove la trovava. Ci doveva essere qualcuno che la faceva sulla spiaggia per dar da mangiare agli scarabei, forse erano quelli che facevano le sabbiature? Che sporcaccioni, pensavo. Ero capace d’osservarlo per ore, se mia madre non mi avesse portato via, senza disturbarlo. Non sapevo da dove venisse e non sapevo dove andasse; per me era come una carovana che traversava il deserto. Forse i miei erano preoccupati per questa mia predilezione, ma i miei non erano a conoscenza di chi mi aveva preceduto in questa mia piccola passione. Gli antichi Egizi credevano che uno scarabeo mitico e gigantesco ogni mattina, invece di rotolare una pallina di cacca, sospingeva il sole attraverso il cielo, fino al tramonto. Certo c’era stata gente con una immaginazione più grande della mia.
La domenica veniva il babbo con altra gente del Borgo. Venivano con un camion dell’Allegrini (?) di porta Romana o con l’Esatau-Lancia col muso lungo e col cassone aperto del Vannini. I passeggeri si sedevano su dei tavoloni poggiati su delle casse per l’uva. Doveva essere un viaggio incredibile, da pionieri, sotto il sole di luglio, protetti solo da un nuvolone di polvere. Viamaggio non era ancora asfaltata. Il babbo portava uno spolverino bianco e metteva un sacco sotto il sedere. Raccontava che cantavano e forse si consolavano nell’ammirare il paesaggio appenninico, come se fossero in una vettura decappottabile. Di certo eran felici: c’era la pace, la guerra era finita da due o tre anni.
Io ero felicissimo di rivedere il babbo, mi aiutava a far castelli e gelati, aranciate e bomboloni erano assicurati.
Lo strano era che quando veniva lui non avevo più bisogno di fare il pisolino, andavo al mare con altra gente subito dopo il pranzo. Il pisolino lo faceva lui, era tanto stanco per il viaggio e la mamma gli faceva compagnia.
(continua)
29 settembre 2008, Marblehead, MA USA
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Fausto Braganti
ftbraganti@verizon.ne
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