10 M’ Arcordo …. la Beppa, Via San Puccio e Via Santa Caterina.

 Quando avevo cinque anni (1946) mi mandarono all’ asilo delle Maestre Pie. Fu all’allora che i miei genitori, in un momento di paterno ottimismo, conclusero che ero un bambino bravo, buono e sopratutto intelligente. In fondo sono tanti i genitori che corrono questo rischio. Più avanti dimostrai che il loro non era poi così ben fondato; ai loro occhi rimasi sempre intelligente, ma in certe occasioni veniva aggiunto l’aggettivo “svogliato”, che poteva diventava anche “vagabondo”.

 

Ho poche memorie dell’asilo: il grembiulino bianco, una monaca bassa e tonda, ed il giorno che siamo andati al giardino a fare la fotografia sotto il monumento di Piero. Però ricordo benissimo un manifesto con un bambino ferito, piangente e grondante di sangue: aveva giocato con un ordigno inesploso; ai margini dello stesso c’ erano i disegni di vari tipi di bombe e l’avviso di non toccare niente e di chiamare subito i carabinieri. Noi non sapevamo ancora leggere, cosi le monache ce ne parlavano spesso, se no seremmo diventati come quel bambino.A quell’etá ero giá un figlio unico, ma non lo sapevo. In teoria era possibile che in un prossimo futuro serebbe potuto venire un fratello od una sorella, ma non vnnero mai. Credo che si diventi figli unici verso i dieci anni. Ero geloso dei miei cugini Ciuchi, loro erano quattro. Ma ritorniamo ai miei genitori. Dopo una tale costatazione cosa potevano fare con un bambino che aveva dimostrato tanto interesse nei libri, che voleva sempre che qualcuno gli leggesse qualche storia, che copiava le lettere dei titoli dei giornali senza ancora sapere che cosa fossero, e che aveva imparato a mettere gli scacchi al posto giusto e sapeva tutte le mosse dei vari pezzi? La risposta fu per loro molto semplice: mandarlo a lezione per fare la prima privatamente, cosi l’anno dopo, a sei anni, sarei andato direttamente in seconda e sarei stato un anno avanti. Che vantaggio! Non immaginavano che sarei finito in una classe con dei brinzelloni grandi e grossi  e con alcuni  con quasi il doppio della mia etá, e questo creò non pochi problemi, ma forse ne parleremo un altra volta.

Non credo che al Borgo ci fossero molte scelte, a parte la Bebba. Questa era una vecchia maestra ed aveva insegnato a leggere e scrivere a mia madre e lei un giorno mi ci portò. La conoscevo bene, era vicina di casa dei miei nonni Taba, che stavano su per Via San Puccio, quando questa ancora non sfondava. Stava in una casa all’angolo con Via Santa Caterina. Conoscevo bene quel vicinato, e d’estate spesso s’andava e veglia non lontano da li, all’angolo Via degli Aggiunti e Via Luca Pacioli, da tutti detta del Fiorentino.

Spesso andavamo a trovare la mi’ nonna, da poco rimasta vedova. Il fatto di sapere che lei era vicina mi aiutò a superare i primi timori, anche se fu proprio lei a dirmi che se avessi fatto il cattivo sarei stato punito e rinchiuso in uno stanzino nero e buio, ma questo non mi faceva paura. A quei tempi quello di cui avevo paura, anzi terrore, era la minaccia che, se avessi fatto il cattivo, mi avrebbero mandato in seminario. Ricordo le colonne dei ragazzi con la tonaca lunga ed il gran cappello nero che marciavano in fila, come poi li avrei rivisti nei film di Fellini. Mai e poi mai sarei diventato uno di loro. Quella minaccia funzionava e come! Diventavo subito buono.

La guerra era finita da poco ed ancora era presente in tante conversazioni; i soldati polacchi erano partiti da poco. Giá avevo sentito parlare di Nino, figlio della Beppa e compagno di giochi di mia madre bambina, che non ritornato, era disperso in Russia. Non sapevo cosa o dove fosse la Russia; mi dicevano che era un posto lontano e freddissimo e con tanta neve. Ma  con la neve doveva essere bello, pensavo io. Il posto piú lontano dove ero stato era Gubbio, li ci stavano i miei zii. La Beppa e sua figlia Agnese aspettavano sempre che Nino tornasse: era disperso, o forse prigioniero, e non morto, così loro volevano ancora sperare. Nino non è mai ritornato. A volte, quando ero po’ piú grande ed saputo cosa era successo in Russia, ho pensato a lui, poverino, quello della foto in cucina. Come era morto? Di freddo, di fame, di tifo, o forse combattendo? Poi immaginavo le sue osse bianche sperdute nella steppa. Ma come era possibile che uno fosse partito da Via San Puccio e per andare a finire in Russia? Chissá quanto aveva sofferto e mi sentivo triste per la su’ mamma e la su’ sorella, che avevano tanto sperato e detto tanti rosari.

La Beppa aveva avuto un “tocco” di paralisi al lato destro, cosi scriveva con la sinistra e male. Faceva lezione in cucina e l’ Agnese era la sua assistente per tenere a bada i bambini. Nella grande cucina c’erano dei piccoli banchi e tavolini dove si facevano prima gli esercizi con le aste.poi pagine e pagine di lettere e numeri, poi si leggevamo le prime paroline. Non ricordo molto altro, a parte una bambina dal grembiulino bianco: l’Alba, come mi piaceva l’Alba! Quando finiva la scuola tornavo a casa da solo, le macchine in giro erano pochissime, dovevo solo traversare Via degli Aggiunti per poi fare un paio d’isolati in Via della Firenzuola.

All’angolo di Via Luca Pacioli e Via della Firenzuola c’era la “Trattoria Toscana”, con un gran cartello sopra la porta. Sapevo giá come si chiamava, ma un giorno fui capace di decifrare e di leggere da me: “Toscana”, fui felicissimo! La Toscana, l’ Italia erano un po’ come la Russia, non riuscivo a capire cosa fossero, erano forse cittá dietro le montagne oltre Anghiari?

Un giorno mia madre mi portò alle scuole elementari Edmondo de Amicis. Mi fecero un esamino, facendomi leggere e scrivere e poi dissero che ad ottobre sarei stato ammesso alla seconda, e tutti furono felici e contenti.

Mia madre era nata in Via San Puccio e come ho giá detto mia nonna ancora ci abitava, In un angolo dell’ incrocio con Santa Caterina c’era una fontana; erano in molti a non avere l’acqua corrente e le brocche di rame non venivano ancora usata come un port’ombrelli. Lì, proprio di rimpettaio alla casa della Beppa c’era il Crudo (Boncompagni), marmista scarpellino, famoso per le cantate dopo le epiche sbornie. Dall’altro lato c’era il Maggini che lavorava al Buitoni. Un po’ piú su c’era suo fratello (?) detto il Maggiore, il ciabattino. Appena il tempo lo permetteva tirava fuori il suo deschetto sulla strada. Da questa posizione strategica controllava tutto quello che succedeva nel vicinato. Mi domando cosa direbbe oggi, scoprendo che proprio li davanti hanno aperto un ristorante cinese. Mia madre mi diceva che quando era bambina in cima a Via San Puccio c’era un deposito di carrozze (di chi? chi si ricorda il nome? forse era detto Galina?). Nell’ultima casa sulla sinistra e mi sembra che avesse l’orto sulle mura ci stavano gli Zoppi, i nonni della Rina, anche lei venuta in America, ma molto prima di me.

Poi c’era Via Santa Caterina. Li c’ erano altri amici come i Callisti, socialisti come mio nonno. Mia mamma mi diceva d’una notte di gran paura nel ‘22, quando vennero gli squadristi e ruppero loro tutti i vetri delle finestre; i miei nonni temevano che sarebbero poi venuti anche da loro, ma non lo fecero. Io chiamavo Adriano Callisti zio, per essere precisi era solo uno “zio de latte”, perchè la mi’ nonna Santina gl’iva deto la poccia e cosi era il fratello de’ latte de la mi’ mamma. Bisogna sempre coltivare le parentele, anche quelle accidentali. Quando andavo a mangiare da lui mi trattava come uno di famiglia. Poi c’era la Monica, una signora forse sui settant’ anni alta e dal portamento elegante, gonna lunga, stretta in vita da gran cinture, come fosse nel 1910, sembrava una gran signora. Agli inizi degli anni cinquanta si risposò. Dicevano che quando in novelli sposi si parlavano si davano del “voi”. Ma anche per loro i tempi erano cambiati, così si narra che un giorno la Monica disse al marito: “Adesso che siamo nell’intimitá, perchè non ci diamo del te?” Nelle cronache del vicinato la risposta del marito non è stata tramandata. Ricordo poi la Carolina e Bastiano, una anziana coppia di persone piccole, piccole che abitavano in una casa piccolissima, stretta fra due altre. Non avevano figli, ma tirarono su due nipoti. Quando Bastiano morì, la Carolina mi diede le sue medaglie della Prima Guerra Mondiale perchè sapeva che io le avrei tenute da conto, c’era anche una croce al merito. Quando ho visto la foto di Iaio bersagliere le ho riconosciute. Le ho ancora.

D’estate, come ho giá detto, la sera si andava spesso a veglia all’angolo di Via degli Aggiunti e Via del Fiorentino, davanti a Bagni Pubblici del Marini. C’era sempre tanta gente. Mia madre si portava la sedia. Mentre i grandi chiaccheravano noi citti si giocava. La televisione non c’era e non si sapeva neanche che ci fosse. Li, fra i tanti, c’era un’ altra famiglia d’amici, gli Alessandrini, quelli di Doriano. Il babbo Duilio aveva il forno in Via Mazzini e la su’ mamma era la Maria Secca. Poi c’erano quelli che abitavano al “Casone” di Via Santa Caterina, ed erano tanti, non capivo chi e quanti fossero. Penso che c’erano anche dei profughi. C’era una specie d’ androne, sempre aperto, che dava accesso a corridoi e scale per accedere a tanti poveri appartamenti e stanze sparpagliate. Quando si giocava a nascondino non mi piaceva addentrarmici per cercare qualcuno, era sempre buio e c’era un odore strano: avevo paura. Ricordo una donna bruttissima, poverina, senza naso. Io ero curioso ed ascoltavo i pettegolezzi dei grandi, dicevano che viveva in una sola stanza col marito ed un’altra donna, l’ amante di lui? C’era un ragazzo un po’ piú grande di cui non ricordo il nome, spesso giocavo con lui. Alcuni anni piú tardi, quando aveva forse 15 anni, picchiò e cercò di violentare una ragazza nel fossato della fortezza, non ho mai saputo i dettagli,. Penso che i miei genitori non volevano che io, giá in piena pubertá, ancora non si parlava di testoterone, ne sapessi di piú. Non l’ ho piú visto o forse non lo riconosco.

Era un p iccolo microcosmo. Quando anni dopo lessi “Cronaca di Poveri Amanti” di Pratolini, mi ha ricordato tanto quel vicinato di gente semplice e modesta. Mi ci sentivo bene, mi sentivo protetto. Avrei voluto essere stato piccino con mia madre ed andare alla famosa scampagnata a Monte Casale, quella col barroccio carico di vettovaglie e di damigiane di vino di cui ho giá parlato. Dove abitavo io, in quella parte di Via della Firenzuola vicino al comune, non c’era molta gente, così si orbitava piú in quest’altro vicinato. Poi non c’erano molti bambini con cui giocare, così durante il giorno andavo spesso in Via della Castellina. Ma forse questa è un’ altra storia. Grazie Giuliana per ‘l tu’ “M’ Arcordo”, mi hai fatto rivedere tanta gente, m’ ero scordeto de Borghino.

24 giugno, 2008 Marblehead

I vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Come sempre mi raccomando, scrivete!

Fausto Braganti 

 

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