Il 13 giugno del 1953, Sant’Antonio da Padova e 5 anni esatti dopo ‘l terremoto, era un sabato, ed io ero giá in vacanza.
Avevo appena finito la prima media. Mi sembra che la scuola finì alla fine di maggio perché ci sarebbero state le elezioni politiche ai primi di giugno, e noi citti s’era tutti contenti: come sarebbe stato bello se avessero votato tutti gli anni.

Piazza Garibaldi – Giorno di mercato
M’arcordo che era sabato perché era giorno di mercato e allora i polli e l’ova li vendevano in piazza Garibaldi e banchini li mettevano davanti al domo fino a piazza. Noi allora s’abitava in Via della Firenzuola, vicino al comune, e quel giorno c’era sempre un gran traffico de gente. Era ‘na bella giornata perché s’era tutti ‘n tu la via a giocare. Proprio davanti all’uscio de casa avevano parcheggiato un caminciono, uno di quelli col dietro aperto con ai lati una specie di staccionata in legno per tenere il carico. Ci si divertiva tanto a salire e a scendere e arrampicarci in cima alla staccionata. Penso che forse avevo visto un film di pirati, perché gridavo in continuazione:
”All’arrembaggio!!” brandendo una spada di legno.
Fra di noi c’era ‘na cittina, Morena, di forse 6 o 7 anni che voleva giocare, e noi, cattivi, la mandavamo via perché non volevamo una bambina e poi era anche piccola. Lei non si scoraggió e riusci a salire nel dietro del camioncino per poi arrampicarsi su per la staccionata. Io ero in cima che facevo il pirata equilibrista, lei mi toccó appena ed io caddi a testa in giù sul lastricato, saranno stati almeno due metri. Misi il braccio sinistro avanti ed attutii il botto, e non sbattei la testa. Ero stravolto e stralunato per terra, quando mi sentii tirar su: era un contadino che veniva o andava al mercato:
“Te se’ fatto mele, cittino?” Ed io ero li tutto ‘ntontolito, ancora non sentivo nessun dolore. Gli amici vennero per portarmi verso casa. Qualcuno aveva giá suonato il campanello, e sentii che gridavano alla mi’ mamma ch’ero caduto e che m’ero fatto male. Fu proprio allora che cominciai a sentir un gran dolore al braccio. Lo guardai e notai che la mano non era al posto giusto. La camicia con le maniche lunghe non mi permetteva di vedere cosa era successo, ma sembrava che fra il gomito ed il polso ci fosse una gran curva. Mi sentii di svenire. Mia madre era giá in strada e cercava di rimaner calma e mi consolava.
“Ora andiamo dal dottore, subito!” e lei mi sosteneve mentre ci incamminammo verso l’ambulatorio del Dott. Cavalli che era vicino, bastava girare a destra in Via Petto Rotondo., traversare gli Aggiunti, e c’era la casa con l’ufficio del dottore. Era circa mezzogiorno e l’ambulatorio al secondo piano era pieno di gente che aspettava il proprio turno. Mia madre entró dicendo che era un emergenza, che il dottore mi doveva veder subito. Bussó alla porta ed il dottore venne ad aprire, e ci fece entrare e mi fece sedere. Il paziente seminudo sul letto stava a guardare sorpreso. Il dottore osservó il braccio per pochi secondi e disse:
“Non é niente, s’é rotto un braccio, cose che succedono ai citti! Ora si va all’ospedale.”
Poi andó verso l’altra porta dell’ambulatorio, quella che lo collegava con il suo appartamento e chiamó la moglie, si chiamava Fausta! Poco dopo anche lei era accanto a me e diede al marito un bicchierino.
“Bevi questo, ti fa bene!” ed io bevvi, penso che fosse grappa, bruciava tantissimo; ero titubante e lui continuava dire di ber tutto. E così feci. Ripensandoci, i tempi erano diversi, la guerra era finita da meno di dieci anni, il Dott. Cavalli che credo fosse stato in Albania o in Grecia chissá quante ne aveva viste, che cos’era per lui una semplice frattura d’un braccio senza ferita aperta? Niente, una sciocchezza. Un bicchierino di grappa mi avrebbe aiutato a ritrovar forza e coraggio. La mamma mi sorreggeva fin quando montammo in macchina e in pochi minuti eravamo all’ospedale, quello vecchio. Si chiamava, mi sembra, “Spedali Riuniti”. Io mi domandavo spesso: hanno fatto un errore, si son dimenticati della “o”. Salimmo la scalinata che portava al primo piano dove c’era ‘na corsia, ma non m’arcordo s’era quella de l’omini o de le donne. A metá scala sulla sinistra c’era l’infermieria. L’odore dell’ospedale era dappertutto, non mi piaceva. Mentre eravamo li aspettando il dottore di turno arrivó il babbo con l’Ing. Longinotti. Gli avevano telefonato. Ero tutti attenti attorno a me, poi mi fecero i raggi e mi misero una stecca con una fasciatura stretta stretta, dicendo ai miei di riportarmi a casa per poi ritornare nel pomeriggio per l’ingessatura, ovviamente si dimanticarono di dirmi alcuni dettagli: cosa avrebbero fatto prima di ingessarmi. La frattura radio-ulna era semplice, e dai raggi non avevano visto nessuna scheggia d’osso. Ricordo ben poco di quell’attesa, eccetto il gran dolore.
Non m’arcordo molto di quel pomeriggio a casa eccetto vari commenti in famiglia, ci fu chi con sarcasmo disse che Sant’Antonio non ci aveva protetto dal terremoto cinque anni prima e che ora non mi aveva protetto dal cadere, ma ci furono altri che dissero che proprio Sant’Antonio aveva fatto il miracolo e che mi aveva protetto, che mi ero rotto solo un braccio e che cosiderando la caduta mi sarei potuto rompere la testa. Ognuno, come al solito, crede in quel che vuol credere.
Tardi nel pomeriggio mi portarono di nuovo all’infermieria dell’ospedale. Mi ero ripreso un po’ ed aspettavo con curiositá come avrebbero fatto l’ingessatura, ancora ignaro di come avrebbero rimesso le ossa a posto.
Mi misero a sedere in una sedia e mi sfasciarono. Il dottore venne e si mise a studiare il mio braccio storto, sembrava che fra il polso ed il gomito avessi ‘n’altro gomito. Poi venne un infermiere, era grande e grosso e si mise in piedi dietro di me. Senti che mi prese per le spalle, mi teneva stretto come per non perdere la presa, quando il dottore, senza darmi nessun preavviso, mi diede un gran strattone, tirando il braccio buttandosi indietro con tutto il suo peso. Mi radrizzó il braccio, e poi lo spinse, sperando che le osse si riallienassero al punto giusto. Il dolore fu cosi improvviso ed intenso che l’urlo mi si bloccó in gola, mi sembrava che gli occhi, che poi non c’entravano niente, mi saltassero fuori. Tutto questo fu fatto senza nessuna forma d’anestesia, neanche un miracoloso bicchierino di grappa. Poi mi rifasciarono con la stecca e rifecero i raggi, le ossa erano ritornate a posto perfettamente. Dopo venne l’ingessatura, il dolore era ancora così intenso che avevo perso tutto l’interesse di vedere cosa facevano. Sarei rimasto ingessato pe quattro settimane. Avrei fatto in tempo ad andare al mare senza gesso. Più o meno nello stesso giorno anche il mio compagno di banco, Alberto Majoli, si ruppe un braccio. Mi sembra che lui cadde da un muretto.
Il dolore passó e andavo in giro con il mio braccio rotto come fossi un eroe ferito in una gloriosa battaglia, speravo che le citte mi ammirassero per il mio coraggio. Nessuno mi disse mai niente per confermare la mia speranza.
Far regali non era parte della cultura contadina del nonno Barbino, ma questa volta ci ripensó e mi me ne fece uno: mi regaló una pipa, bella nuova e levigata. Non so cosa dissero i miei genitori, avevo dodici anni, ma forse pe lui non era cosa inusitata. Diceva che non si ricordava quando aveva cominciato a fumare, ma che ha otto anni giá lo faceva. Io non cominciai a fumare, lo feci quasi dieci anni dopo. Peccato, oggi ho tante pipe ma quella, la mia prima, é andata persa. L’Ing. Longinotti mi regaló dei bellissimi francobolli di San Marino.
Ancora oggi sono molto refrattario ad andare dal dottore, forse propri quei miei primi contatti con la professione medica furono traumatici. Solo due anni dopo ci fu altro episodio che confermó le mie convinzioni.
A quattordici anni decisero che era l’ora di togliermi le tonsille e per questo mi portarono di nuovo in quell’infermieria dell’ospedele. Il gran professore veniva d’Arezzo, credo una volta alla settimana, per far l’operazioni. Forse mi misero a sedere nella stessa sedia, forse lo stesso infermiere grande e grosso mi prese per le spalle, e dopo avermi bloccato la bocca aperta con uno strumento di tortura, mi taglió le tonsille, anche questa volta senza anestesia. Non dico altro.
Due parole sul Dott. Cavalli. Non son sicuro, ma credo si chiamasse Vittorio. Non solo era il dottore di famiglia, ma era anche un amico del babbo. Dietro un primo aspetto che sembrava burbero era una persona gentile. Mi piaceva il gran diploma di laurea appeso nell’ambulatorio, pieno di figure allegoriche che davano importanza a tale documento. Quando mi visitava trovava sempre modo di raccontarmi qualche piccola storia, spesso della guerra. Il ricordo di lui é strettamente legato alla morte del mi’ babbo. Venne subito quella sera, dopo che mio padre cominció a lamentarsi per un forte dolore al petto, dal lato sinistro. Il babbo era sul letto, io lo sorreggevo, ed aveva gran difficoltá a respirare. Il dottore cercava d’aiutarlo, e nell’emozione del momento i ricordi son confusi, poi all’improvviso, cominció ad imprecare, dicendo che non c’era più nulla da fare, che era morto, e che lui dottore non era stato capace a far nulla per salvarlo. Non solo aveva peduto un paziente, aveva perduto anche un amico.
11 marzo 2009, Marblehead, MA USA
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Fausto Braganti
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