(riveduto ed aggiornato, 24 marzo 2011)
In questi giorni si fa un gran parlare della Libia, e proprio questa mattina alla radio hanno dato la notizia di grandi combattimenti a Misrāta, che poi sarebbe Misurata, come l’avrebbe chiamata il mi’ babbo. pensato di rivedere questo M’Arcordo… che scrissi due anni fa, proprio in questi giorni, ed ho aggiunto delle foto che non avevo ancora ritrovato.
Come dissi allora io in Libia non ci so’ mai stato. L’altr’estate ci sono arrivato vicino, a Siwa, ufficialmente in Egitto, ma gli egiziani stessi chiamano quella parte del loro paese il Deserto della Libia. Ero vicino al confine, a pochi chilometri dalla mitica Giarrabub, quella del “Colonnello non voglio il pane, voglio il piombo per il mio moschetto…” Ho poi anche scoperto che Guido del Borgo e Fernando d’Anghiari erano stati a Siwa, prima di andare a combattere ad El Alamain per poi esser presi prigionieri, assieme al Topo de Lama. Anche Ruggero Ruggeri (Vitellino di soprannome) bersagliere era stato ad El Alamain ed anche lui fu fatto prigioniero. Dopo quelle del mi’ babbo le sue eran le storie migliori.
Ne ho conosciuto gente che é stata in Libia, cominciando da quelli che andarono alla guerra dell’ ’11 e poi fino a quelli reduci della Seconda Guerra Mondiale. Ci sono anche quelli che ci nati e quelli che poi ci han vissuto, un specie di pieds-noirs italiani. Quando lavoravo all’Alitalia di Boston c’era un gruppo di “Tripolini” siciliani, venuti in America verso il 1960, e da tutti ne ho sentito tanto parlare, che certe volte m’è sembrato d’esserci stato per davvero. Luciano, uno dei miei capi all’Alitalia e poi mio amico era nato a Tripoli. Suo padre. Il dott. Tosini veterinaio, aveva conosciuto benissimo Italo Balbo. Un giorno spero d’andarci e fare in macchina da Tripoli a Bengasi, poi magari andare anche nel sud, nel Fezzan, ma di questi tempi (questo l’ho scritto due anni fa, mi sa che dovrò aspettare ancora un bel po’).
Ma fra tutte le storie quelle del mi’ babbo erano le più belle, le più avventurose e non ero mai stanco di farmele arccontare di nuovo, anche se credo di averle sapute a memoria.
In un altro M’Arcordo (16mo… quello di quando s’andava a veglia) ho già raccontato la storia che nel 1924 i giovani di leva di Sansepolcro furono mandati in Libia, per punizione, i loro genitori avevano votato socialista, e così partì anche ‘l mi babbo, che non aveva neanche votato ed era simpatizzante fascista! La nonna Vittoria, la su’ mamma, per prepararlo alle durezze del servizio militare, non gli aveva messo ‘l prete con lo scaldino nel letto per diversi inverni.
“Che beffa!” diceva ‘l babbo “Ho sofferto tanto freddo per poi finire in Africa a morire dal caldo.”
In casa di cimeli della Libia ce ne son ben pochi. C’é una storia, ma chissá se anche questa sarà vera, che quando il babbo ritornò, allora abitavano alla Fonte Secca, all’inizio di via del Petreto, la nonna Vittoria lo fermò sull’uscio e neanche lo abbracciò, lo fece spogliare prima d’entrare in casa e fu spedito subito a farsi un bagno bollentissimo e la divisa e tutti i suoi panni furono bruciata nel cortile, incluso il casco coloniale. Lei non voleva pidocchi e piattole africane in casa. Peccato, quello mi manca nella mia collezione di cappelli, mi debbo consolare con la fotografia! Ho solo un frustino da cavallerizzo, una sacchetta di pelle per il tabacco ed un bocchino d’avorio e, sempre di quel periodo, una macchina fotografica col soffietto.
C’era anche una piccola collezione di cartoline francesi erotiche, si fa per dire, di ragazze arabe seminude, che il babbo teneva nascoste nel cassetto del comodino. Ci doveva essere un bel traffico di queste immagini di bellezze esotiche che forse venivano dalla Tunisia. Quando i miei s’accorsero che io le avevo scoperte e le studiavo attentamente con tanta curiositá, forse avevo cinque o sei anni, le fecero sparire. Peccato, credo che oggi varrebbero nel mercato dell’antiquarato. Ne son sopravvisute due o tre.
Un po’ di storia. Dopo la delusione della Tunisia, che se l’erano presa i francesi, l’Italia mise gli occhi sulla Libia e nel 1911 con una di quelle ridicole storie che solo i politici son capaci di inventere dichiarono guerra all’Impero Ottomano. Mussolini, allora socialista e direttore dell’ “Avanti” scrisse articoli di fuoco contro l’imperialismo italiano: mandavamo i nostri giovani a morire per un cassone di sabbia. Certo poi fece una bella camaleontica trasformazione!
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il governo italiano, alle prese con il fronte con l’Austria, decise d’abbandonare la Libia, aveva bisogno di tutte le truppe disponibile per sostenere la guerra in casa. Avevano mantenuto solo Tripoli e Bengasi, mentre il resto era stato ripreso, con l’aiuto della Turchia e della Germania, dai ribelli, come li chiamavamo noi, ancora fedeli al Gran Senusso. Ci fu poi una campagna di riconquista, poco conosciuta, che iniziò nel 1922. L’obbiettivo era quello di raggiungere, lungo la costa mediterranea, Bengasi e verso sud per rioccupare il Fezzan. Pochi mesi prima che il babbo arrivasse le truppe italiane avevano ripreso Misurata, locata sulla costa mediterranea della Sirte. Era strategicamente importante, una testa di ponte da dove si organizzavano le operazioni per riconquistare i territori perduti.
Il mi babbo, dopo un breve periodo a Tripoli, fece “carriera”, dopo tutto lui aveva fatto le scuole tecniche, e per quei tempi era quasi una gran cosa. In poco tempo divenne caporal maggiore e fu spedito a Misurata Marina e dal nome si capisce che era vicina al mare. Uno dei suoi commilitoni del Borgo, che aveva dato un calcio ad un arabo che si era chinato per terra per la preghiera, fu punito e mandato con una carovana nel Fezzan, il deserto nel sud, a lá morì.
“Non si danno i calci agli arabi che pregano.” Diceva ‘l babbo “Porta male.”
Fu messo in furieria e teneva l’amministrazione, responsabile dei rifornimenti e dei magazzini: tranquillo lavoro d’ufficio nella maggioranza dei casi, almeno in questa prima parte del suo servizio, e non gli mancava niente. Mi affascinava l’idea che lui era quello che ingaggiva i cammellieri per il trasporto delle salmerie. Volevo credere che ‘l mio babbo fosse un grande esperto di cammelli. Ho sempre sentito raccontare che in due anni sparó un solo colpo di fucile, a casaccio nel buio, una notte in cui pensarono d’essere attaccati, ma forse erano solo dei cani randagi, diceva lui. Il babbo stava in ufficio con i suoi libroni e faceva finta d’esser un ragioniere. Le truppe combattenti. quelli che andavano in prima linea, guidate da ufficiali italiani, erano gli Ascari, truppe di colore, quasi tutti eritrei cristiani contenti di combattere contro i mussulmani infedeli e d’esser anche pagati per questo. Non era del tutto solo, con lui a Misurata Marina c’era anche un altro Borghese, il Comanducci del Petreto, il podere fra il cimitero e la Madonnina del Latte, quella che oggi é la villa del Boninsegni. Era conosciuto con il soprannome Pacchjino (voi Borghesi sapete come pronunciarlo). Non m’arcordo come si chiamasse di nome.
Fu anche allora che il babbo scoprì tutta la gloria dell’antica Roma. Lui che non aveva ancora visto il Colosseo, andò a visitare Leptis Magna. Le rovine di questa magnifica città romana, nel contesto delle credenze e propaganda di quei tempi, confermavano la missione delle nostre truppe di riprenderci quello che era stato sempre nostro: quella era la quarta sponda.
Nei caldi pomeriggi africani faceva un pisolino e poi spesso cavalcava lungo la spiaggia sabbiosa vicino al mare. E pensare che fino a pochi mesi prima aveva visto solo l’Afra ed il Tevere. Ancora non aveva imparato a nuotare, sapeva fare il morto e galleggiava, rimanendo vicinissimo alla riva. Fu proprio in uno di questi pomeriggi che rientrando a cavallo verso la caserma cominció a sentir un gran freddo. Poi cominciarono i brividi, quando si sdraió sulla sua branda bubbolava. Lo portarono subito all’infermeria e poi all’ospedale. Venne il medico: aveva preso il tifo. Ce n’erano giá stati molti casi e alcuni erano morti. In poche ore la febbre divenne altissima e delirava. Il babbo mi raccontava che si era convinto che sarebbe morto, sperduto e senza gloria, lontano dai suoi e dal Borgo. Non si era mai dimenticato il nome del suo dottore, il Dott. Trepiccioni, responsabile di quell’ospedale. Quel nome mi sembrava tanto buffo,. Il Pacchjino lo andava a trovare e cercava di fargli coraggio. La febbre continuava ad essere altissima ed il medico decise che doveva fare il bagno col ghiaccio per abbassargli la temperatura. Questa parte della storia mi faceva venire i brividi. Ma poi il bagno non lo fece, ebbe un’emorragia e lo diedero per morto, e gli tirarono su il lenzuolo sopra la testa. E lui era tanto debole che non poteva parlare o muoversi. Quando riprese coscienza cominció a temere che l’avrebbero sepolto vivo. Vennero degli infermieri per portarlo via e fu proprio uno di questi che si accorse che aveva battuto un ciglio e gridó:
“Ma questo é vivo!” e così ‘l babbo si salvó, pensavo io. A questo punto della storia io ero tutto contento che non era morto, altrimenti io non ci sarei stato. Passarono giorni e lentamente si riprese, aveva solo vent’anni ed aveva l’energia per guarire. ‘l Pacchjino, suo vicino de casa, anche se quando erano stati al Borgo non s’erano frequentati, andava sempre a trovarlo. ‘l babbo aggiungeva che era un tipo silezioso, si sedeva accanto al letto e stava zitto. Alla fine fu dimesso e fu deciso di rimandarlo in Italia in convalescanza, era ancora debole ed aveva perduto molto peso.
Il giorno prima di partire ‘l Pacchjino andó a trovarlo:
“Renato domani parti, s’artorni al Borgo dopo l’ospedale, vai a salutare i miei e digli che sto bene.”
“Certo, certo, li vado subito a trovare.”
“Stasera se va a cena al ristorante.”
A Misurata c’era solo un buon ristorante dove ci andavano gli ufficiali.
“Al ristorante?” domandó sorpreso ‘l babbo “Ma chi ce l’ha i soldi?”
“I soldi ce l’ho io, ‘n te preoccupare. Prima se mangia e poi te l’arconto come l’ho guadagnati.”
E cosi andarono a cena e mangiarono e bevvero benissimo e poi venne la storia di come aveva fatto i soldi.
“Alora, quando stavi tanto male, tutti dicevano che saresti morto e me dispiaceva tanto. Me dispiaceva anche, l’hai visto ‘l cimitero? che se uno more miquì fanno ‘na buca ‘n terra e ce lo buttono d’entro, senza neanche la cassa. Alora ho deciso de fare ‘na tomba per te. Ho trovato ‘n po’ di mattoni e de pietre e ho preparato un tombino. Poi in magazzino ho fregato un po’ d’assi e ho fatto ‘na cassa da morto. E poi, per fortuna, te ‘n si morto e io so armasto con ‘na cassa e un tombino.”
Cerco d’immaginare la faccia del mi’ babbo quando sentiva ‘sta storia, e ‘n’era manco finita.
“Poi è morto ‘n tenente, anche lui aveva preso ‘l tifo. C’era ‘n capitano furioso per come seppelivano i morti, io me so’ presentato e gli ho detto che c’ivo ‘na tomba e ‘na cassa da morto ch’ivo fatto pe’ ‘n amico, che ‘n’era più morto e che gliela davo. E lui grato pe’ ‘l mi’ gesto, m’ha voluto dare venti lire. Io prima ‘n li volevo, ma poi l’ho presi. Ho pensato che qu’i soldi ‘n erano manco i mii, ma i tui. Ma ‘n teli potevo mica dere, e ch’era meglio mangiasseli e belli, magari al ristorante.”
Il babbo tornò in Italia e sperava di armanerci, ma dopo la convalescenza lo rimandarono in Libia, ma questa è un’altra storia, forse.
Spesso quando si incontrava ‘l Pacchjino per la via il babbo diceva ‘na battuta:
“Ecco il mio becchino!” oppure “Noi se mangiato coi soldi de la mi’ cassa da morto!”
Ed io pensavo che era vero: era proprio lui quello che aveva fatto ‘na cassa da morto per ‘l mi’ babbo e ridacchiavo.
Agli inizi degli anni trenta ‘l babbo fu richiamato in servizio per fare le Grandi Manovre. Queste si svolsero nell’Appennino marchigiano dall’altra parte di Monte Nerone. Il babbo si fece male ad un piede e lo portarono in ospedale ed il medico curante severessimo, che rimandava in linea tutti quanti, si chiamava Dott. Trepiccioni. Il babbo lo riconobbe, si misero a parlare della Libia, di Misurata ed il dottore si raddolcì … e lo mandò a casa.
20 marzo 2009, (rivedito, 24 marzo 2011) Marblehead, MA USA
Pubblicato il 20 marzo 2009,
Riedito il 24 marzo 2011
Riedito il 2 novembre 2011
Nei giorni passati si e’ parlato molto dei feroci combattimenti per conquistare Sirte, città della Libia sul Mediterraneo dove è nato Geddafi. La maggior parte della gente non aveva sentito mai parlare di questa città ed ora che é tutto finito e Geddafi é morto probabilmente verrà presto dimenticata.
Il babbo nel 1924, come ho detto, arrivò in una caserma a Misurata Marina e faceva parte della seconda compagnia Cacciatori d’Africa, un corpo di fanteria ch’era addestrato a combattere nel deserto. In quelle strane vicissitudine belliche era successo che gli italiani avevano acquisito un gran numero di cavalli, catturandoli ai “ribelli”; cosi i fantaccini si trasformarono in cavalieri.
“Ma senza sciabola.” Avrebbe aggiunto il babbo.
Ecco perché Weingarten lavorava, o meglio non lavorava, nella stalla come ho raccontato nel 49 M’Arcordo…Guess who came for dinner?
Nella primavera del 1925, credo, fatti i dovuti preparativi per la spedizione, una colonna di truppe italiane si mosse da Misurata ed il primo obbiettivo era di riprendere Sirte (il babbo nella foto ha scritto Sirt, ma quando mi raccontava le storie era sempre Sirte).
In tutto ho quattro foto di questa spedizione e di certo la qualità non é buona. In questa c’è anche il babbo, il quarto da sinistra, quello col cappello grande, quello che il babbo chiamava alla “boera”, i caschi di sughero non erano ancora arrivati. Riconosco il babbo, solo perchè lui me lo indicava. Si può notare che alcuni ufficiali hanno ancora il cappello a kepi tipico della Prima Guerra Mondiale. Ci sono anche le truppe coloniali Spahis con il fez in testa, non si vedono gli Ascari, normalmante appiedati, ma dalle storie sentite so che c’erano anche loro ed erano proprio loro quelli che andavano sempre avanti per primi, o forse sarebbe meglio dire: venivano mandati avanti per primi.
Finalmente arrivarano a Sirte e trovarono la città deserta, anche se alloro credo fosso solo un paese. Era stata abbandonata, eran fuggiti tutti, forse anche il babbo e la mamma di Gheddafi allora bambini. Cominciarono un rastrellamento casa per casa, temevano improvvisi attacchi a sorpresa. Fu proprio il babbo, cosi raccontava, che alla fine trovò una donna vecchia e sdentata, che forse era anche muta e demente. Insomma non ci fu nessuna eroica battaglia a coronare la conquista da parte delle nostre gloriose truppe coloniali. Dopo pochi giorni la gente che era fuggita cominciò a rientrare.
Mi son sempre domandato, ma dov’era Weingarten? É forse in una delle foto? Domande a cui non avrò mai risposta.
Aggiunto il 2 novembre 2011
Marblehead, MA USA
Fausto Braganti
Facebook: Fausto Braganti
Skype: Biturgus (de rado)
Rispondi