Era la fine di luglio, ero ufficialmente maturo, e questo lo sapete de giá, ed un bel pezzo dell’estate era giá passato. Avevo a disposizione un Vespone GS, una nuova macchina fotografica e sarei andato all’universitá: sarei dovuto esser soddisfatto e contento anche se non avevo ‘na citta. E forse lo ero. Sul tutto c’era una gran nube dell’icertezza: cosa avrei fatto da grande. Io non lo sapevo. Il tutto era stato sempre rimandato, nessuno me ne aveva parlato seriamente. Forse i miei davano per scontato che alla fine poi, in una maniera o in un altra, sarei finito a lavorare alla Buitoni, ma a far cosa? Ma che importa! L’importante é il posto e con l’universitá sarebbe stato un buon posto.
In quegli anni la Buitoni era ancora tutto per la gente del Borgo ed anch’io ci credevo. Avere un posto alla Buitoni era il massimo delle aspirazioni, con sicurezza e rispetto garantiti. Non solo il babbo lavorava alla Buitoni da quando aveva 18 anni, sarebbe forse meglio dire che viveva in simbiosi con la Buitoni, ma ogni giorno dalle finestre di casa mia ne ammiravo la mole.
Molti anni dopo, negli Stati Uniti, la Toscana divenne di moda; agli americani non bastava piú vedere Firenze o la Torre di Pisa. Ogni volta che qualcuno scopriva che ero toscano e che avevo anche un appartamento, faceva commenti pieni d’invidia immaginando lunghi viali di cipressi allineati e colline coperte di vigne, e non la ciminiera del Buitoni. E io non dicevo nulla.
Secondo l’opinione di molti, includendo anche quella del Sor Marco, non c’erano dubbi sul mio futuro. Forse era proprio questa certezza che in fondo mi preoccupava, ma ancora non lo sapevo.
“Bravo, continua a studiare e quando hai finito l‘universitá, se ne hai bisogno, mi vieni a trovare. Ricordati.” Mi disse a bassa voce, durante una cerimonia di consagna di borse di studio per studenti meritevoli, figli dei dipendenti, mentre mi porgeva un assegno (£ 75.000 ?). Ma chi si sarebbe scordato qualcosa detta dal Sor Marco? Mi feci un vestito, il mio primo vestito vero, dal sarto, da Danilo.
Arduino Brizzi descrive benissimo, con una punta di sottile sarcasmo, gli impiegati della Buitoni nel”La Piazza”, classe sociale privilegiata di Borghesi; per chi ce l’ha ed é curioso suggerisco d’andare a leggerlo.
Intanto cominciarono i giorni pigri della vacanza.
In uno di quei primissimi giorni un amico di famiglia mi invitò ad andare ad una battitura da certi suoi parenti dalle parti di Tavernelle, de lá d’Anghiari. Non lavorai molto, eran venuti in tanti ad aiutare o forse solo per poi mangiare le tagliatelle col sugo d’oca. Una ragazza, piena di salute come si diceva e piú o meno della mia etá, mi diede un paniere e mi invitò a seguirla, avremmo raccolto della frutta. Camminammo un bel po’, in salita, le piante eran lontane, o forse eran un fico, non son sicuro. A quei tempi le ragazze non portavano quasi mai i calzoni, forse le giovanissime a Rimini mettevano calzoni alla marinara. Quando la mia nuova amica cominciò a salire su per un albero, invitandomi a starle dietro col paniere, la sua ampia gonna svolazzante non nascose molto. Aveva le mutandine bianche e delle gran coscie, e come me n’arcordo bene! Sembrava che lei si posizionasse per me, sempre piú in alto ed io non dovevo perder nulla. Ecco il perché non m’arcordo cosa raccogliemmo, tutta la mia memoria si concentrò su quelle mutandine bianche, su quello che mal nascondevano e su quello che immaginavo. Lei spesso si girava come volesse controllare dove i miei sguardi erano diretti e sorrideva ed io timidone, per non dir coglione, abbassavo gli occhi, come volessi assicurarla che non avevo notato niente. E non successe nulla. Non ho memoria del nostro ritorno verso la casa; m’arcordo solo che la cercai quando fu il momento di partire. Non la trovai, era sparita.
C’erano delle regole, o almeno io credevo che ci fossero, per cui l’iniziativa spettava sempre all’uomo. Ed io, a parte il fatto che d’esperienza ne avevo ben poca, per non far la figura dell’invadente, dello scostumato, per paura sapra tutto d’esser rifiutato, non la prendevo mai, o quasi.. Quel giorno, su quell’albero, ma la sbatté, ma sul serio, proprio in faccia ed io non feci nulla, non mossi un dito!
Non credo che sciverò il M’Arcordo… dell’occasioni perdute, sarebbe lungo e sopratutto deprimente. Il bello é che poi raggiunta una certa etá, arricchita dall’esperienza, dopo aver costruito un sistema immunitario contro i rifiuti, quando ti sembra d’aver capito tutto, queste occasioni non si presentano piú: la beffa del destino. Too little, too late!
Il sabato sera, o forse era la domenica, andavo a ballare al Pozzo di Piero, ma di questi balli ne ho giá parlato.
Per tradizione, da sempre, nel mese di luglio s’andava al mare dalle parti di Miramare, ma quell’anno a causa dell’esame di maturitá tutto era stato posposto, e non se n’era fatto nulla. E a Miramare ci andai da solo ai primi d’agosto. Presi la corriera, quasi di sicuro guidata da Pierino (Carattoni) ed andai al mare. Non m’arcordo come fu, ma mi trovai a condividere una camera con Fernando Beni, a tutti meglio conosciuto come Pallino, anche lui solo. Credo che avesse l’etá de la mi’ mamma (1915) e la sua famiglia era stata molto amica dei Braganti, erano stati vicini di casa alla Fonte Secca, davanti al Tricca de la motta.
Notò subito che nel mio comodino avevo lasciato “Guerra e Pace”.
“Che lo stai leggendo? Io ci ho provato, piú d’una volta, ma non ci son riuscito. Ma sai, io ho fatto la Campagna di Russia, ci so stato per davvero, ero bersagliere.”
Qualche volta si passeggiava assieme, se non si parlava di donne, mi raccontava della guerra. M’arcordo la storia del dialetto Borghese.
“’l piú bello del mondo! Dipende tutto de ‘n dove l’arsenti. ‘na notte, durante la ritirata con ‘n un camion mezzo rotto e senza vetri che ‘l nevischio entrava dentro, so’ arivato a ‘na fattoria piena de soldati de tutti i tipi, tedescchi, italiani, rumeni, ungheesi e chissá da ‘n do’ venivano. Avevo feme, sentivo freddo, ero stracco da morire, ‘nsomma disperato. Artornerò mai a chesa? Me domandevo. Mentre girovagavo da ‘n stanza a ‘n’altra senza meta, ho sentito le parole piú dolci de la mi vita, venivano da ‘n crocchio de soldati, seduti ‘n terra, chi giochevano a carte. Quelle sono state le parole che m’hanno ardato la speranza. Ho sentito uno che diceva:
“Oh citti! Moh ’ne ’ncomincemo a freghere!”
Me son fatto largo e chi era? ‘l Landini, ‘l Landini del Borgo, lo conosci. Quello che manda ‘l proiettore al Dante. M’ha’rconosciuto, e m’ha detto d’aspettere, doveva finire la partita. Ecco ‘l destino, ‘n mezzo alla steppa russa ho ‘ncontrato ‘l Landini del Borgo e per non so quale ragione m’ha ardato la speranza e a chesa ci semo artornati tutti e due.”
Si parlava spesso di donne e sempre con gran rispetto. Mi diceva di come le donne al mare, in villeggiatura, cambiano. Son pronte a fare quello che non avrebbero mai il coraggio a fare a casa loro. Aveva ragione, ma anche in questo caso ci ho messo del tempo per capirlo. Mi sembra
Sarei dovuto rimanere due settimane, ma solo dopo una decisi d’artornare al Borgo. Non c’era nessuno che conoscevo. Forse tutti i miei vecchi amici c’erano andati a luglio.
L’altro regalo del babbo fu la balastra. Sarei diventato balestriere, sarei passato di categoria, non piú un figurante. La Societá dei Balestrieri avava ancora un arco. Un operaio fabbro che lavorava il ferro battuto per un suo amico del babbo di Castello, l’ing. Godioli, forgiò tutte le parti metalicche ed infine il Medici, professore dell’intaglio, utilizzando una vecchissima stanga di sorbo, scolpi il tiniere e in poche settimane mi mise assieme la balestra. Fui pronto a tirare per Sant’Egidio. (primo settembre)
La mia lettura per quell’estate si concentrò su “Guerra e Pace” e Pierre, il principe Andrei, Natasha e tutta una marea di personaggi buoni e cattivi, dai nomi difficili mi tennero compagnie per un paio di mesi. Per immedesinarmi ancora di piú nella storia, come sottofondo musicale ascoltavo Tchaicovsky. Ma avendo un solo disco, Oveture 1812, ascoltavo sempre quello, facendo diventar matti babboe e mamma. Alla fine mi ero così affezionato alla lettura, o meglio a miei personaggi, che avrei voluto che il libro non finisse.
I giorni passavano ed ancora non avevo deciso a che facoltá iscrivermi. Rimandavo, forse speravo in un raggio che scendeva dal cielo e che mi indicasse la via. Il mio amico Franco sarebbe andato a farmacia, Bruno, come giá aveva fatto suo fratello Livio non aveva dubbi sulla scelta, i Galardi eran farmacisti da almeno duecento anni. Fu proprio da questo che cominciò a crescere l’idea che da grande sarei stato un farmacista. Forse non ne ero cosciente, ma questa sarebbe stata una buona ragione per non andare alla Buitoni. Ma il tutto non era ancora chiaro.
Come ogni estate ci furono pomeriggi dove con gli amici cercavo refrigerio su per l’Afra, nei soliti gorghi dove i Borghesi avevano fatto il bagno per generazione. Mi piaceva il Cadutone. Il Gorgo del Ciliegio mi faceva un po’ paura.
La mia Vespa mi portava ovunque e quasi ogni sera salivo alla villa del Poggio della Fame, residenza estiva dei Galardi, Bruno era un mio grande amico. Spesso ci andavo anche due volte al giorno. La Vespa spesso in prima per le ripide salite, mi portava a destinazione. La veduta della valle era bellissima, di certo miglire della Villa Paradiso e Villa Fatti per il semplice fatto che era locata piú in alto nella collina. Nel dietro della casa c’era una lunga fila di cipressi ed anche un boschetto con uno spazio aperto al centro (mi sembra). Era il luogo piú fresco nell’afa dell’estate. Una altra destinazione era proprio la Villa Fatti, prima che si trasformasse in Buitoni. Paola e Marta Trivella ci invitvano ad andare in piscina. Per quanto ne sappia io era l’unica piscina privata in tutta la valle. Per me era una gran soddisfazione avere il permesso ufficiale di tuffarmici e non di trafugarsi di nascosto da dietro le siepi, come piú d’una volta avevo fatto con Giuliano Cesarini. In fondo non era divertente, c’era sempre la paura d’esser scoperti (intoppati) dal sig. Trivella, che non gradiva le visite dei clandestini.
Al Poggio della Fame i Galardi avevano la televisione in una sala al piano terra e nelle calde sere d’estate si poteva vedere i programmi anche stando seduti fuori della porta, all’aperto, al fresco. M’arcardo quelle piacevolissime serate, tranquille e serene e pensare che proprio in quei giorni avevano cominciato a costruire il Muro di Barlino, e se ne parlava molto.
M’arcordo in particolare che una notte, tardi, tornando a casa, ad una delle prime curve proprio sotto il Poggio, fermai la Vespa, incantato. Sembrava che tutte le lucciole del mondo s’eran radunate sopra un campo. Non ne avevo mai viste cosi tante. sembravano fossero milioni, sembrava che illuminassero le spighe del grano ancora non mietato. Se le avessi prese tutte, messe sotto un bicchiere grande, molto grande, al mattino avrei scoperto d’esser ricco.
Una volta alla settimana c’era il nostro immancabile appuntamento con Perry Mason. Di certo l’avrei potuto vedere a casa mia con i miei, ma io preferivo prendere il Vespone e salire al Poggio, come lo chiamavamo noi. Quella sera venivano tutti ed in molti ci sedevamo fuori della porta, c’era il tutto esaurito. Appena si sentivano le note della musichetta all’inizio della puntata c’era il silenzio assoluto, non ci doveva sfuggir nulla. Perry Mason, l’avvocato-detective, a cui non sfuggiva nulla, in meno d’un ora avrebbe scoperto il vero colpevole e scolpato l’innocente erroneamente accusato. Era infallibile. Tutti noi eravamo contenti e soddisfatti nel sapere che al mondo c’era uno come lui: Perry Mason, e che parlava anche in italiano.
Quando sono arrivato in America (1970) faci una grande ed ovvia scoperta, e mi sembra che questa ve l’abbia giá detto, gli attori americani perlavano in inglese. Ma io preferivo Stanlio ed Ollio in italiano. Un giorno mi misis a guardare un vecchio episodio di Perry Mason, si, anche lui parlava in inglese. Non mi piaceva piú come prima.
Se a qualcuno venisse la voglia di sentire la vera voce di Raymond Burr ecco:
http://www.guba.com/watch/3000105931/Perry-Mason-1×01-The-Case-Of-The-Restless-Redhead-1957-avi
Certi pomeriggi di domenica c’era festa danzante. I Galardi portavano un giradischi nel boschetto e si ballava, questa foto un po’ sfocata, colpa mia, ricorda proprio una di quelle feste.
Verso la fine di settembre andammo a Gubbio a trovare gli altri Braganti. Ci fu una specie di consiglio di famiglia per aiutarmi a prendere una decisione. Il cugino Riccardo, veterinaio, lavorava come ispettore scientifico o qualcosa del genere per l’industria farmaceutica Carlo Erba. Forse proprio quel giorno lui mi assicurò che con la laurea in Farmacia c’era la possibilitá di altre carriere, a parte quella ovvia e tradizionale. E lui mi avrebbe aiutato.
Pochi giorni dopo andai a Firenze con Franco. Varcai timoroso il gran portone dell’Universitá che dá in Piazza San Marco, che avevo sempre visto solo da fuori. Salii al secondo piano e mi inscrissi a Farmacia.
Vedremo…
10 maggio, 2010, Marblehead, MA USA
I vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete!
Fausto Braganti
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