Non so chi abbia inventato i bottoni e neanche quando. Di certo ci fu un qualcuno che una mattina, dopo una notte piene di incubi di perdere i calzoni nel momento meno opportuno, decise:
“Ecco, abbiamo bisogno dei bottoni!”
Di certo qualcuno che in proposito ci ha scritto un libro e proprio in questi giorni a Parigi, dove mi trovo e scrivo, c’è una mostra:
“Boutons: phénomène artistique historique et culturel” 1,500 pezzi della collezione Loïc Allio, alla Mona Bismark Fondation (Trocadero). Che strana coincidenza. Ma poi chi era questo signor Allio che decise di fare una collezione di bottoni? Anche a Marblehead c’è un antiquario, Jerry, che è specializzato in bottoni antichi e come trasformarli in economici gioielli.
Guardando certi affreschi egiziani ed anche quelli etruschi o le statue greche e romane, non ho mai notato che ci fossero i bottoni. So che erano sconosciuti a certe culture fino a tempi molto recenti. Infatti un amico giapponese una volta mi parló che nel rituale di vestire una geisha c’era quella di legare tanti nodi. Mi pare che fosse un gran numero, forse 36? Importante è seguire un ordine specifico e pensare che non indossano ne’ mutandine o reggiseno; poi c’è il rituale all’inverso. Ma anche questo sará vero? Conclusione: non puoi essere impulsivo o impaziente con i nodini d’una geisha, c’é anche il rischio di farli più stretti invece d’allentarli. L’attesa dell’obbiettivo da raggiungere é trasformata in rituale ed è piacere in se stesso, per chi ha tempo. Non ho mai conosciuto nessuno ch’abbia avuto quest’esperienza.
E pensare che le mutande della nonna Vittoria avevano uno solo nodino, facile da legare ed ancor più facile da sciogliere, e forse non ce n’era neanche bisogno. Questa sarebbe stata una bella domanda da fare al nonno Barbino, ma poi di certo non avrei avuto il coraggio di chiederglielo.
I religiosi iraniani shiti non hanno bottoni nel loro vestiario, é considerato una decadenza occidentale e peccaminosa. E pensare che la tonaca dei preti, dal collo fino ai piedi, di bottoni ce n’aveva tanti.
“Ma quanto tempo ci mette ad abbottonarli tutti?” questa era una delle domande della mia infanzia che non ha mai avuto risposta.
Quand’ero picino i calzoni del’omini avevano i bottoni sul davanti e non era peccato. Le donne non li portavano. Le ragazzina, ma solo quando andavano in vacanza al mare, avevano forse i calzoni alla pescatora, quelli fino alla caviglia, ma non son sicuro come si chiudessero o meglio come si aprissero, un altro campo in cui non ho esperienza.
La mamma aveva un paio di calzoni, ma li metteva solamente quando andava in Vespa col babbo. La mamma in gioventù, negli anni trenta, andava in motocicletta, cosa inaudita per quei tempi. Guidava quella dello zio Nello Ciuchi e penso che anche i calzoni alla cavallerizza che sfoggia nella foto siano stati dello zio.
M’arcordo anche che spesso l’omini, dopo una visita al pisciatoio, continuavano la manovra del riabbottonamento dei calzoni quando giá camminavano per la via. ‘l babbo e la mamme insistevano che io dovevo abbottonarmi del tutto prima d’allontanarmi.
Si, allora c’erano i pisciatoi, e se uno voleva sembrare più educato li chiamava vespasiani, ma di questi ne parleremo ‘n’altra volta, forse.
“Gabbia aperta, uccello morto!” era la tipica battuta che mi sentivo diro se m’ero dimenticato d’abbottonarli.
M’arcordo d’essere così piccolo che mi mettevano ancora dei calsoncini, che la mamma chiamava prendisole, che avevano sotto l’inguine due bottoncini di metallo che si inserivano l’uno sull’altro, erano gli infami “automatici”. Erano quelli per i citti picini picini che ancora portavano il pannolino. Ed io li odiavo. Io non me la facevo addosso, io sapevo quando dovevo andare al gabinetto. Io volevo i calzoni con i bottoni, come i grandi, sul davanti.
E cosi fu, e fui felice.
Anche se non mi scappava la pipi, quando passavo vicino ad un pisciatoio dicevo che la dovevo fare. Mi sbottonavo e ad operazione compiuta mi riabbottonavo e tutto fiero continuavo per dove dovevo andare. In fondo basta una pipi per sentirsi grande e felice.
Si portavano i calzoni corti per una gran parte dell’anno, con le bretelle cucite nel di dietro e dopo averle incrociate passavono sopra le spalle e si abbottonavano sul d’avanti. In questa maniera si aggiunsero due bottoni al guardaroba.
Anche a quei tempi c’era razzismo, anche se non aveva un nome. La differenza era che nessuno diceva niente. Eravamo tutti bianchi, eravamo tutti cattolici, anche quelli che non andavano in chiesa e non c’erano estracomunitari, i pregiudizi nascevano dal classismo sociale. Anche se allora non me ne rendevo proprio conto ho poi capito che la lunghezza dei calzoni corti era una tipica affermazione di chi eri. In estate comparivano dei bambini fiorentini che venivano in vacanza dalle nostre parti, figli di vecchie famiglie che ancora non avevano finito di vendere tutto quello ch’era rimasto delle loro proprietá in collina. Anche loro avevano i calzoni corti, ma non erano corti comi i nostri che scendevano appena un po’ sotto l’inguine, i loro arrivavano fin quasi al ginocchio, “All’inglese” come diceva mia madre. Mi sembravano ancora più buffi quando mettevano i calzettoni lunghi. Loro giocavano per conto loro.
Quando arrivava il primo freddo umido e con questo tanta nebbia, penso verso novembra, il guardaroba d’improvviso cambiava: era arrivata il tempo di mettere i pantaloni alla zuava, (ma chi erano poi questi Zuavi? allora non lo sapevo) lunghi, abbottonati alla caviglia e con questi mettevo dei calzettoni a scacchi che arrivavno alle ginocchie. Mi sembra ch’erano sempre pesanti un po’ rigidi di fustagno, il panno del diavolo, o di velluto a coste.
Poi, quasi di sorpresa arrivó un inverno, forse ero in prima media (1952), e quelli zuava sparirono: eran d’improvviso passati di moda. La mamma mi compró i calzoni lunghi fino ai piedi, come quelli del babbo e del nonno, coi bottoni sul davanti, ero diventato grande. Ma la moda non passò per tutti: il Sonni, e non era un ragazzino, rimase fedele ai suoi, e nel suo caso non fu mai fuori moda. Lui indossava sempre vestiti eleganti e di buon taglio, giacca e calzoni alla zuava e lo si vedeva sempre con la sua fedele bicicleta che l’aiutava nel suo procedere incerto e difficile. Nel 1976, durante una mia visiata al Borgo, in un momento di nostalgia, mi feci fare dalla mamma della Margherita della Pieve, un vestito alla cacciatora di velluto a coste, con panciotto e pantaloni alla zuava. Ancora mi sta.
Verso la fine degli anni cinquanta i cugini di New York mi mandarono un gran regalo, una gran novitá: il mio primo paio di blue jeans! Quasi del tutto sconosciuti al Borgo a quei tempi. E l’ulteriore novitá era che non c’erano bottoni: avevano la chiusura lampo.
Zip… erano chiusi, zap…erano aperti. Ecco: il primo segno che era arrivata una piccola rivoluzione anche nell’abbigliamento maschile. Le donne ce le avevano da tempo. Ma penso che i bottoni continuarono a chiudere i calzoni degli uomini ancora per un bel po’.
A proposite delle donne m’arcordo una spoglierellista a Pigalle (1964), alta e slanciata, che comparve sulla scena con addosso una tuta blu che la copriva tutta. Dopo aver danzato sinuosamente così per un po’ capii che non era un meccanico che lavorava dal Boninsegni. Non avevo e non mai poi pensato possibile che si potessero cucire tante chiusure lampo in una tuta, daventi e di dietro, orizzontali e verticali, corte, lunghe e lunghissime. Di certo mi colpì molto, a parte il fatto che era il mio primo spogliarello, se ancor oggi, dopo tutti quest’anni, me la ricordo così bene. Cominció con quelle più piccole. Le apriva e le chiudeva mostrando, per quello che per me sembrava un microsecondo, l’ombelico e magari un capezzolo. Non so come non si confondesse o non s’infrenasse. Passó poi a quelle più lunghe, ne ricordo una orizzontale stratetigicamente cucita all’altezza delle natiche. Mi sarebbe piaciuto esser stato il sarto che aveva disegnato e fatto le prove di quella tuta. E poi arrivó il gran finale, la chiusura lampo piu lunga del mondo… cominciando da un polso, salendo lungo il braccio fino all’ascella per poi schendere lungo il torso giù fino alla caviglia, il tutto con una lentezza esasperante da far impazzire il pubblico. E lei balzó fuori, nella gloria di tutta la sua bellezza come una farfalla che si è liberata della crisalide.
… e se in quella tuta ci fossero stati dei bottoni?
Parliamo d’altro.
Ero al mio prim’anno d’universitá (1961-62) quando arrivó il film francese “La Guerra dei Bottoni.” Narra le avventure picaresche di due bande di ragazzi di due paesini di campagna che si scontrano in epiche battaglie ed il bottino dei vincitori sono i bottoni dei calzoni dei vinti. Che risate! Mi piacque cosi tanto che il giorno seguente andai a rivederlo. Non credo che ci sarebbe stata una storia da narrare nella nostra epoca delle chiusure lampo. L’ho rivisto un paio d’anni fa, ed è uno di quei film, e ce ne sono tanti, che non è invecchiato bene; mi ha fatto appena sorridere. Questo forse perchè son passati tropp’anni da quando m’abbotonavo i calzoni.
C’è anche la storia dei soldati di Napoleone, forse ce la raccontó il profossere di scienze Bistarelli al liceo, che avevano nelle loro divise dei bottoni d’una lega di metallo, credo di stagno, che ad un temperatura molto bassa diventavano fragili, si rompevano e si sfarinavano. Un’altra ragione per perdere una guerra…quando ti cascano i calzoni. Una volta in un negozio di abiti militari vecchi trovai un paio di mutande lunghe francesi, credo del tipo che hanno usato sino alla Seconda Guerra Mondiale, ed i bottoni erano di legno. I francesi avevano imparato la lezione: il legno non si sfarina col freddo.
E per finire parliamo della scatola dei bottoni. Non credo ci fosse casa dove non c’era una vecchia scatola di latta, magari una di quelle degli Amaretti di Saronno od una delle caramelle Rossana, piena di vecchi bottoni. Quando un capo di vestiario aveva raggiunto la fine, dopo esser stato riciclato in tutte le possibili maniere e diventava davvero uno straccio, il bottoni venivan risparmiati alla miserabile fine. Venivano staccati e finivano nella famosa scatola dei bottoni a far compagnia agli altri nell’attesa d’esser riutilizzati in futuro. Generazioni di bottoni si accomulavano in questa vana attesa. Mia nonna mi faceva giocare con i suoi, e quando la nonna è morta i suoi bottoni si sono aggiunti a quelli della mamma. Non so dove son finiti.
Ho scritto questo M’Arcardo… a Chaville, ad ovest di Parigi, vicino a Versailles. I miei suoceri francesi, i genitori di Pascale, hanno 87 anni ed hanno deciso d’andare in una casa di riposo. Per quasi un mese ho aiutato a svuotare e pulire l’appartamento pieno dei ricordi di tre generazioni. Abbiamo scoperto tanti piccoli tesori, e non erano monete d’oro, ma le memorie della famiglia degli ultimi cent’anni, il tutto accompagnato da tanta malinconia.
In uno degli armadi Pascale ha scoperto la collezione dei bottoni di mia suocera Thèrese e proprio questa scoperta m’ha dato l’idea di scrivere questo M’Arcordo… Lei é sempre stata una donna precisa e organizzata, non si é accontetata d’una grande scatola dove buttarli alla rinfusa, lei ha diviso e classificato il tutto per colore e dimenzione in tante piccole scatole. Pascale li porterá in America. Cerco d’immaginare la faccia del doganiare se le aprirá la valigia.
Non serve a niente, ma qualche volta è divertente riscrivere la storia: se Napoleone avesse avuto bottoni di Thèrese forse non avrebbe perso la Campagna di Russia, la storia vi incuriosisce?
14 agosto, 2010, Chaville, Francia
Fausto Braganti
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