Il babbo mi accompagnò fino al piazzale davanti alla Buitoni, cominciava a far buio, e da li partii: destinazione Padova…
Forse perchè era l’inizio d’un qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevo mai fatto, mi sentivo tutto eccitato, forse un po’ nervoso. Ero convinto che sarebbe stata una grande avventura. Tutto è ancora così chiaro nella memoria, almeno quello che ricordo anche nei dettagli piú insignificanti.
Salii sul camion, forse era un Lancia Esatau, o uno simile, uno di quelli col motore nel mezzo della cabina, fra i due sedili. Avevano messo per me una coperta sopra il cofano , potevo starci seduto di lato, oppure in sella, molto caldo e scomodo. Altrimenti non c’era un vero posto per me, se mi stancavo mi potevo sdraiare sul lettino nel di dietro, oppure stavo nel sedile vuoto, quando uno degli autisti prendeva il suo turno di riposo. Aveva giá viaggiato varie volte con gli autotreni, quindi conoscevo un pò la routine e le tradizioni dei camionisti e sapevo che una di quelle a cui tenevano di piú erano i pasti. Loro conoscevano tutti i ristoranti buoni e quali erano le loro specialitá. Erano in molti quelli che, vedendo un parcheggio pieno di camion, dicevano:
“Guarda, questo un posto per camionisti, fermiamoci qui!”
Quella sera non andammo lontano, gli autisti dovevano mangiare prima d’affrontare i tornanti di Verghereto, allora non c’era la superstrada. Ci fermammo non molto dopo Pieve Santo Stefano ad uno di questi rinomati ristoranti: il Volante. Avevano scelto il nome giusto per quel locale, sapevano quali erano i clienti a cui tenevano. Poi sarebbe venuta una lunga e lenta guidata. E infatti lo fu. Era una notte calda e s’andava così piano, spesso in ridotta, che piú d’una volta aprirono lo sportello per far entrar l’aria fresca. A quei tempi non si sapeva neanche che fosse l’aria condizionata. Non ti manca quello che non conosci.
Non m’arcordo molto di quella nottata, solo che alle prime luci dell’alba arivammo a Padova. Andammo in una zona dove c’erano dei grandi magazzini per scaricare. Ed io saltai giú dalla cabina col mio zaino, o meglio il glorioso zaino di Danilo. Ero pronto, da quel momento cominciava il mio vero viaggio da solo. Ho un immagine chiarissima di quel momento. Alla finestra d’una casa c’era una bella ragazza che si pettinava. Aveva i capelli lunghi e scuri, mi guardò e mi sorrise, o almeno io pensai che lo fece. Era un buon segno, decisi ch’era un segno di buon augurio.
Non m’arcordo come feci a raggiungere la strada nella direzione di Venezia ma so che un signore con una macchina scoperta mi diede il mio primo passaggio. Anche questa fu una nuova esperienza, non ero mai montato in una spyder.
Con un vaporetto feci il Canal Grande da Piazzale Roma fino a San Marco. In quella assolata mattina di luglio vidi Venezia per la prima volta, in tutta la sua gloria ed unica bellezza. Costeggiai i palazzi antichi dalle facciate di trina di marmo, passai sotto i ponti, incantato, era tutto vero, non era un documentario alla televisione. Poi m’accorsi che percepivo il tutto con un velo di malinconia e non sapevo da dove fosse venuta. Avevo con me tutto il bagaglio di quello che avevo letto e studiato a scuola: la Repubblica, i Dogi, Marco Polo, Casanova, Ippolito Nievo e persino l’ira d’Ugo Foscolo dopo la pace di Campoformio, tutto mi tornava in mente. Ora tutto era finito ed io ero in ritardo. Anche se avevo visto ben poco giá avevo capito che era rimasto solo un posto dove i turisti compravano le cartoline e l’econimiche riproduzioni delle gondole di plastica.
Arrivato in piazza San Marco presi un altro vaporetto che mi portò dall’altra parte nell’isola della Giudecca, dove c’era l’ostello. Era un edificio un po’ strano, con il frontale che assomigliava ad una costruzione olandese. Era ben locato, potevo vedere San Marco, San Giorgio, e tanta Venezia dall’altra parte del canale. Mi dissero che era alta stagione e che sarei potuto stare solo tre giorni.
Non c’era molto tempo e decisi di cominciare subito ad esplorare la cittá. Sulla porta dell’ostello incontrai un genovese che come me si apprestava ad andare in giro e fu lui che suggeri:
“Andiamo a piedi. Prendiamo il ponte, e un po’ piú lunga per andare a San Marco, ma almeno non costa niente.”
“A piedi? Il ponte? Ma quale ponte?”
“Quello!”
Mi indicò un lungo ponte di barche sulla nostra sinistra che traversava tutto il canale dalla Giudecca, era proprio li vicino ed io non l’avevo visto. Partiva dalla chiesa del Redentore, ancora non sapevo ch’era del Palladio, e portava fino all’isola di fronte, quella dove c’è la Santa Maria della Salute.. Il genovese aggiunse:
“Fra pochi giorni ci sará la Festa del Redentore, una gran festa a Venezia. Mi hanno detto che ogni anno per tradizione arrivano quelli del Genio Pontieri e costruiscono un ponte di barche fra le due isole.”
Traversammo il ponte e poi lungo i calli arrivammo a quello dell’Accademia per poi giungere in Piazza San Marco. Feci subito un’altra scoperta, a Venezia hanno tutta una loro toponomastica con dei nomi sconosciuti. Non solo le vie si chiamano calli, ma poi ci sono le fondamenta, le rive, i sestieri, le corti e le salizade ed altri nomi che non ricordo.
Il genovese non parlava d’altro che di tutti i suoi segreti per risparmiar soldi, infatti voleva trovare dove fosse il mercato della frutta dove sperava di recimolare un po’ di quella gettata che era in parte ancora commestibile. Ed io ascoltavo. Quando ad un certo punto, avendo sete, dissi che volevo bere una birra, reagì con ostilitá, come se avessi fatto una proposta oscena. Allora pensai che forse era vero quello che dicono dei genovesi, che sono gran tirchioni. Non mi ci volle molto a capire che non m’era simpatico e decisi con sarei piú andato in giro con lui. Non m’arcordo molto d’altro di quella giornata e dei giorni successivi eccetto che andai in giro da solo un po’ ovunque, senza una meta precisa. Cercai d’arcattare qualche ragazza all’ostello per farmi compagnia, ma non ebbi gran successo. M’arcordo che andai all’Accademia a vedere il ciclo dei dipinti del Carpaccio, quelli con la storia di Sant’Orsola e le l’Undicimila Vergini. Solo una santa ne poteva trovar tante!
Una sara uscii con due ragazze inglesi alla ricerca d’un posto per mangiare e spender poco. Con quel ponte di barche s’andava e veniva a nostro comodo. Trovammo una pizzeria e mentre eravamo lá dei ragazzi veneziani cacciatori cominciarono a parlare con le ragazze. A me personalmente non importava proprio niente. Mi misi in disparte e tirai fuori dalla tasca un maranzano, ovvero uno scacciapensieri, che a quei tempi portavo quasi sempre con me, e mi son messo a suonare. L’avevo comprato l’estate prima a Caltagirone dove ero andato coi balestrieri. Dico suonare per modo di dire, non si suonava molto col maranzano e meno non eri in un film di Sergio Leone.
Non ho il fisico del bullo e tanto meno potevo passare per un picciotto focoso, ma l’effetto, del tutto imprevisto, fu repentino. I ragazzi mi guardarono, salutarono le ragazze e se ne andarono. Credo che non capii subito quello ch’era davvero successo. Li avevo intimoriti. Io, Fausto Braganti intimorivo! Io ero piú sorpreso di loro. Ma forse avranno pensato che in tasca avevo non solo un maranzano, ma anche un coltello a scatto.
Per una fortuita coincidenza sembrava che per la mia ultima sera avessero programmato una gran festa. Quella sera cominciava la veglia per la Festa del Redentore, sarebbe durata tutta la notte. La gente cominciò ad arrivare nel tardo pomeriggio e come scoprii piú tardi tanti venivano non solo da Venezia, ma da tutti i paesi intorno alla laguna. Penso che molti eran venuti in barca. Cercavano di accaparrarsi i posti migliori lungo il canale con tavoli e sedie. C’erano famiglie intere con i nonni e i nipotini e tutti parevan contenti e sembrava che tutti si conoscessero. C’erano quelli ch’avevano portato anche i fornelli con la bombola del gas e subito si misero a cucinare. C’era un grand’odore di frittura di pesca. Il ponte di barche era affolatissimo di gente che arrivava dalle altre isole.
Io vagavo fra tutta quella gran folla che mi sembrava contenta. L’appuntamento annuale era stato mantenuto, il ciclo si ripeteva. Forse ben pochi sapevano come questa tradizione era cominciato, ma non era importante. L’importante esser lá, ritornare anche l’anno prossimo, e poi quello dopo e così via. Quella era una sera speciale anche per noi, l’ostello non aveva coprifuoco. Si poteva rientrare a qualsiasi ora.
Stanco di girovagare mi fermai ed osservavo tutta quell’umanitá che mi passava davanti. Ero vicino ad un lungo tavolo al bordo del canale dove una famiglia numerosa era tutta presa a mangiare, avevano portato di tutto e friggevano pesce in una padella, l’odore era buono. Uno che mi era vicino mi chiese:
“Ma lei è solo? Venga, si sieda con noi, qui c’è da mangiare per tanti.”
Sorpreso dall’invito inaspettato rimasi incerto per un momento sul da farsi.
“Venga, si sieda qui.” Ripetè indicandomi una sedia.
Ringraziai e mi sedetti con loro, subito mi misero davanti un piatto pieno di pesce di tutti i tipi. Nella padella cucinavano una frittura di pesciolini, di quelli piccolini che si mangiano interi con testa e coda, buonissimi! Era una gran famiglia di pescatori di Chioggia e come tante altre eran venuti per la festa. Mi dissero che per tradizione era una festa a cui i pescatori della laguna tenevano molto.
Non m’arcardo quanto rimasi, di certo mangia tanto. Mi domando se il genovese trovò una famiglia generosa come la mia. Certo sarebbe stato un buon risparmio.
Al mattino venne l’ora di partire ed ero preoccupato, non avevo la minima idea di come raggiungere la strada nazionale per andare a Trieste. Mentre aspettavo il traghetto per San Marco mi misi a parlare con due ragazzi che erano usciti con me dall’ostello, ma loro eran differenti, loro avevano la valigia e non lo zaino.
“Dove vai?” mi chiese uno dei due.
“Voglio andare a Trieste, io faccio l’autostop.”
“Trieste? Noi andiamo a Trieste. Abbiamo la macchina. Vuoi venire con noi?.”
Non potevo credere alla mia fortuna. Dopo solo poche ore facevo il bagno nel mare proprio davanti all’ostello di Trieste L’acqua era calda e limpida e sul promontorio alla mia destra, non lontano, ammiravo la bianca sagoma del Castello di Miramare.
Non m’arcordo il nome dei due, forse uno era Alberto, viaggiavano con una seicento. Subito capii ch’eran mal’assortiti: era chiaro che anche se erano stati amici a Torino dal momento che cominciarono a viaggiare assieme scoprirono che non era stata una buon’idea: avevano interessi differenti. Infatti credo che fu proprio il giorno dopo che uno dei due annunciò che lui avrebbe preso treno e sarebbe tornato a casa. L’altro, il padrone della seicento, non disse nulla per dissuaderlo, anzi sembrava contanto della decisone. Ed io rimasi con il padrone della macchina e mi portò in giro da tutte le parti. Lui portava un casco coloniale, uno di quelli della guerra d’Abissinia, alla fine me lo regalò. É arrivato in America con me.
Andammo al consolato Jugoslavo per prendere il visto e quando vedemmo la fila cambiammo idea e ci accontetammo d’andare fino ad Opicina a guardare l’Jugoslavia al di lá del confine. Io speravo ancora di rivedere Ruth di ritorno dalla sua vacanza dalmata, ma nel frattempo facemmo una piccola conquista, due altre ragazza inglesi. E con loro andammo a visitare il Castello di Miramare, pieno delle romantiche e tragiche memorie di Charlotte und Maximilian. Ritornammo la sera per uno di quegli spettacoli di luci e suoni, ma m’arcordo ben poco.
Venne la mattina della partenza, il mio compagno mi avrebbe riportato indietro fino a Padova, e quando mi avvicinai alla seicento vidi che la macchina accanto era una Mini Morris, e subito dopo mi vidi comparire davanti Ruth. Eravamo stati nello stesso ostello e non l’avevo vista. Sfortuna infame! Ci fu solo un breve saluto, un bacio sfuggente e la promessa che ci saremmo scritti, ed ognuno andò per la sua strada. Ed io ero triste, l’avevo di nuovo perduta.
Nell’afa del mezzogiorno ci fermammo a Re di Puglia. Fu per me emozionante salire la faraonica scalinata con migliaia di tombe, alla vista di tutti quei morti della Prima Guerra Mondiale i miei occhi si riempiron di pianto. Trovai la tomba di Domanico Braganti, un cugino del babbo. Ho ancora la sua foto in divisa sul muro del soggiorno.
A Padova ricominciai a fare l’autostop e non mi fu difficile raggiungere Ferrara. L’ostello in un vacchio palazzo. era decrepito e maleodorante. Nel tardo pomeriggio girai per il centro, visitai il Castello Estense.
La prossima tappa fu Rimini e fu piú dura. Alla fine un rappresentante che vendeva borse di paglia e che si fermava in continuazione mi portò davanti all’albergo dove stavano degli amici del Borgo. Quel pomeriggio e quella sera con loro mi fecero capire che era stata una buon’idea fare l’autostop. Non avrei mai piú fatto una vacanza del genere.
E venne il giorno del rientro al Borgo, anche questo non fu facile, sembrava che nessuno mi volesse prendere e che se lo facevano era un passaggio di pochi chilometri. Ed io sognavo una donna bellissima che mi avrebbe dato un passaggio con una gran bella macchina, ma questo non seccesse mai. In compenso un prete gentile con una vecchia Topolino sgangherata mi portò fino a Pente del Presale. Era verso mezzogiorno e caldissimo. La strada che saliva verso Badia Tedalda era ancora sterrata e non passava nessuno. Mi misi a camminare a piedi ed era una gran fatica, dopo un po’ sentii il rumore d’una motocicletta che lentamente veniva su dietro di me. Era uno del Borgo, un’operaio della Buitoni che conoscevo. Fu l’ultimo passaggio di quell’estate, mi portò fino a casa.
Inutile dire la gioia dei miei nel rivedermi: ero vivo, come se fossi ritornato dalla campagna di Russia. Avevo scritto solo una cartolina da Venezia. In quei tempi senza telefonini e tanto meno p.e. si comunicava solo per iscritto ed era sufficente.
Le vacanze eran finite, l’esame di Chimica Generale Inorganica era duro, ed io non avevo gran voglia di studiare. Quella fu la mia ultima estate senza barba, molte cose sarebbere cambiate, ma questo ancora non lo sapevo ed é tutta un’altra storia.
Ogni giorno aspettavo una lettera da Ruth a cui avevo subito scritto subito al mio rientro. Invano aspettai per mesi, poi decisi che la prima lettera era di certo andata persa e ne scrissi un’altra ed anche questa non ebbe risposta, almeno non subito. Verso maggio o forse giugno dell’anno dopo, quando non me l’aspettavo piú, arrivò una lettera da Londra.
Era terribile, mi turbò moltissimo. Ruth mi diceva che dopo il nostro veloce addio a Trieste era partita con la sua amica nella direzione di Gorizia. Dopo circa mezz’ore, lungo la starda in collina, erano uscite fuori strada e precipitate da un dirupo. Era rimasta piú d’un mese in un ospedale a Trieste prima d’esser riportata in Inghilterra. Non me lo disse chiaramante ma mi fece capire che era rimasta paralizzata. Non ho memoria se le scrissi, ma forse lo feci, ma di certo non ebbi piú risposta.
Nel 1965, quand’ero a Londra per l’estate, trovai il suo numero di telefono, cominciai a fare i numeri, ma smisi prima di finire. Fui vigliacco, non sapevo cosa avrei detto se mi avesse risposto.
16 settembre 2010, Marblehead, MA USA
Fausto Braganti
Facebook: Fausto Braganti
Skype: Biturgus (de rado)
settembre 16, 2010 alle 2:37 PM |
Davvero negli stessi posti , anche Opicina con il trenino , funicolare….
Ma tu …. il languore nell’anima nel raccapezzare quei ricordi!!!
Per me Trieste e’ stata magica.
aprile 13, 2011 alle 9:10 am |
[…] già arcontato la prima volta che feci l’autostop nell’estate del 1963. https://biturgus.wordpress.com/2010/09/16/84-m%e2%80%99arcordo%e2%80%a6-quando-facevo-l%e2%80%99autos… Diciamo che quella era stata un prova, una piccola prova, ancora […]