85 M’Arcordo… quando decisi di non fare il farmacista.

 Ritornato a casa, dopo quella mia prima avventura con l’autostop nell’estate del ‘63, non mi rimaneva altro che studiare per l’esame di chimica che sapevo avrei dovuto dare ad ottobre. Ma ebbi un’idea, ma perché non andare a Roma e stare col babbo? Potevo studiare anche li, in fondo dovevo portare solo un paio di libri, e di certo avrei potuto fare un po’ di giri alla scoperta della cittá che conoscevo appena.

Ma perché il babbo era Roma?    

Forse non molti si ricordano che una volta c’era uno vecchio e malandato stablimento Buitoni anche a Roma. Ne avevano giá costruito uno nuovo, con i soldi della cassa del Mezzogiorno, a Lamezia, ma in questo si producevano prodotti alimentari per bambini, il famoso Nipiol, mentre in quello di Roma. a metá strada fra la Piramide a San Paolo e vicino ai mercati generali della frutta, si produceva solo pasta. La cittá era cambiata molto da quando era stato costruito all’inizio del secolo; quella che una volta era aperta campagna si era trasformata in un centro urbano, stavano costruendo palazzoni ovunque. Economicamente non meritava rimodernizzarlo e decisero che era meglio chiuderlo e vender tutto come terreno fabbricativo.

Ed il babbo, che voleva sempre andare allo stablimento di Parigi, fu spedito a quello sgangherato di Roma. Non c’era molto da dirigere, il suo obbiettivo era di mandarlo avavnti sino alla chiusura. Aveva problemi con gli operai che sapevano che in un futuro non lontano avrebbero perso il lavoro e con il macchinerio arrugginito che andava a pezzi. Lui parlava poco del lavoro ma era chiaro a tutti noi che era scontento.

Per un lungo periodo andavamo ad Arezzo assieme presto ogni lunedi mattina, poi lui prendeva il treno per Roma, mentre io quello per Firenze. Spesso ci riincontravamo il sabato ad Arezzo per tornare al Borgo. Anche se in molti gli avevano suggerito di stare in pensione, dove forse avrebbe potuto trovare un po’ piú di calore familiare, lui aveva preverito rimanere in albergo. 

M’arcordo che quando gli dissi che mi sarebbe piaciuto andare a Roma e stare con lui per un po’ mi perve molto contento.

“Benissimo, così non ceno da solo e si rimane a Roma anche per il fine settimana, son stanco di prendere tutti questi treni.”

Un lunedi mattina d’agosto partimmo assieme per Roma. La mamma, che non c’era mai voluta andare, se ne andò a Gubbio per stare con la zia.

Facevamo colazione assieme e mentre poi lui andava in ufficio col tram, io mi mettevo a studiare. Ma com’era prevedibile non studiai molto, anzi direi quasi niente. Ma chi voleva perder tempo con la tavola periodica degli elementi di Mendeleev? I Musei Vaticani erano molto più interssanti, per la prima volta vidi la Cappella Sistina e c’era tant’altro da scoprire ed io feci del mio meglio. Raramente presi il tram o l’autobus, andavo a piedi da tutte le parti. Per esempio da Via Cavour, dov’era l’hotel, andavo fino a San Pietro, poi prendendo il lungotevere arrivavo fino all’Aventino per poi riscendere verso la Piramide ed alla fine  percorrevo il lungo viale fino allo stablimento Buitoni. La traversata di Roma.          

 
 
 

Ingresso della Buitoni di Roma, Renato Braganti a sinistra,

L’edificio dell’ufficio del babbo sembrava una vecchia casa cantoniera. Ma c’era qualche cosa di moderno: per la prima volta vidi un condizionatore d’aria e in quelle afose giornate d’agosto il suo ufficio era sempre fresco. Alla fine della giornata c’era l’autista che ci riportava in centro. Questo durante un week-end rimase a disposizione e ci portò in giro per la campagna romana ed anche a vedere l’aeroporto di Fiumicino, ch’era stato aperto da poco.

Quella fu la prima volta che passai tanto tempo col babbo e si creò fra di noi un nuovo rapporto, come quello di due adulti, di due amici. Mi piacque.

Ripensandoci adesso, proprio mentre scrivo, penso che quello fu per il babbo un periodo molto triste. Era solo, molto solo e non fece nulla per fare amici. A Roma aveva anche dei cugini e durante quell’anno non li cercò mai. Era alla fine della sua carriera e per lui non era facile adattarsi ai nuovi metodi di gestione che cominciavano a svilupparsi. Anche la Buitoni stava mutandosi, c’era chi voleva trasformare la vecchia impresa paternalistica di provincia in una azienda moderna e conquistare i mercati mondiali. Ora capisco, e ce n’ho messo del tempo ed anche con l’aiuto della mia esperienza, che lui si sentiva ogni giorno un po’ piú tagliato fuori. Questa sua esperienza romana era come un esilio. Forse pensava che l’avevano scelto per questo lavoro proprio perché era vecchio, vecchio come lo stablimento, lo stablimento che avrebbe chiuso. E lo chiuse alla fine dell’anno.

Ritornò a lavorare al Borgo per due mesi e andò in pensione alla fine di febbraio e gli regalarono l’orologio d’oro ed era triste, molto triste.

Ma ritorniamo alla mia vacanza (di studio) romana.

M’arcordo d’una visita alla Basilica di San Pietro. A quei tempi davanti al gran portone c’era un imponente e severo guardiano in una divisa gallonata ed un cappello a tricorno, che attentamente controllava chi poteva entrare e chi no. C’era tutto un codice del vestiario dei visitatori; per esempio non era permesso l’ingresso alle donne in pantaloni o con le spalle scoperte o agli uomini con in calzoncini corti. Una mattina mi trovai vicino ad un un fiero bavarese con indosso i lederhosen (quei calzoni corti di pelle con le bretelle) ed il guardiano imperioso subito lo fermò. Questi si mise subito a protestere in tedesco, e l’altro rimaneva impassibile, anche perché son sicuro che non capiva niente. Immagino che cercasse di convincerlo che quelli non erano dei semplici calzoni corti ma parte integrale della sua identitá, del suo costume bavarese. Mentre io stavo in disparte ad osservare arrivò uno scozzese con il kilt che entrò senza problemi. Al che il baverese cominciò ad urlare indicando quello ch’era appena passato. Il guardiano mi parve confuso, perse in attimo la sua orgogliosa imponenza, era chiaro che non sapeva cosa fare. E poi con una smorfia lasciò passare il tedesco.  

 
 

Obelisco di Axum, una volta a Roma

Per arrivare dal babbo passavo sempre davanti all’obelisco di Axum, uno dei trofei che la breve illusione imperiale di Mussolini aveva fatto portare a Roma. Il babbo mi raccontò d’un ras abissino che s’era suicidato proprio alla base di questo. Quella storia mi colpì molto ed anche se a quel tempo forse non ne capii il significato mi fece pensare. Quello era per noi il simbolo della vittoria, avevamo rifondato l’impero e n’eravamo orgogliosi. Quello era per l’abissino il simbolo della sconfitta, della fine del suo impero. Tutto é relativo. Fu allora, credo, che per la prima volta mi resi conto che le grandi imprese coloniali non erano poi cosi gloriose come mi avevano fatto credere che fossero.

 

 

Negli anni seguenti, andanto e ritornando dall’aeroporto di Fiumicino, son passato centinaia di volte davanti al luogo dov’era il vecchio stablimento ed ora vedo i palazzoni e penso al babbo, a quelle sue giornate romane ed alla sua mal celata malinconia e mi sento triste. E mi ha sempre rattristato anche l’obelisco di Axum per il suo falso senso di vittoria. Ma chi era quel ras che s’era suicidato? Ma poi un giorno, non molt’anni fa, ripassando da quelle parti vidi che non c’era piú: l’avevano restituito all’Etipia e per questo fui contento.

Dopo quella vacanza romana ritornai al Borgo e non c’era rimasto altro che studiare.

Ritornai a Firenze e cambiai zona. Trovai una camera presso una signora antipatica in un imponente palazzo umbertino in via Montebello, non lontano dall’Arno. La camera era grande, con lavandino e caminetto ed il soffitto affrescato con degli angioletti dai culetti nudi che svolazzavano fra le nuvole. La finestra davo su un cortile e proprio di rimpettatio vedevo una stanza sempre con la finestra aperta, ma c’era una rete. Era la stanza dei pappagalli, a cui un domestico con un gilé a righe giallo-nere dava da mangiare ogni mattina. Non c’era bisogno della sveglia, ci pensavano i pappagalli, che presto ogni mattina facevano un gran casino.

Andai a fare l’esame di chimica e come temevo il professore mi disse di ritornare a casa e studiare di più, era la sua gentile maniera per dirmi che m’aveva bocciato.. Ero triste, ma non sorpreso. Tornai al Borgo sconfitto e poi dovevo dirlo ai miei.

Non potevo continuare: avevo 22 anni ed ancora una volta ero incerto, indeciso, sapevo solo quello che non volevo fare. Come ho giá scritto altre volte, dovevo decidere cosa fare da grande, sapevo solo che non sarei stato un farmacista.

Inoltre c’era un altro probema nella mia vita: non avevo una ragazza, I miei vari tentativi di trovarne una erano miseramente falliti, forse non ero convicente e tutta la mia carica testosteronica si perdeva nel nulla. In quei giorni aspettavo ancora invano almeno una lettera da Ruth, l’inglese incontrata all’ostello, una lettera che arrivò solo dopo quasi dopo un anno. In ogni modo tutto questo mi fa pensare che dovrei scrivere un’altra storia. Forse lo farò, ma non ne son sicuro.

Scrivendo questo M’Arcordo… ho anche scoperto che in fondo la mia memoria ha dei grandi vuoti, per esempio ho molte incertezze sulla cronologia degli eventi che seguirono la bocciatura. Semplice, si dimentica con facilitá quello che non é bello ricordare, é una forma di difesa. Ci deve essere una selezione darwiniana nella memoria, gli elementi negativi devono esser eliminati.

  Penso che fosse verso la fine d’ottobre ed il babbo, che aveva preso una settimana di vacanze., mi invitò ad andare a fare un giro in macchina con lui. Dovevamo parlare. Passammo la giornata assieme, andammo a fare i turisti prima in Casentino e poi passando per i Mandrioli arrivammo a Bagno di Romagna per pranzo per poi tornare al Borgo. Fu un viaggio memorabile per me ed anche per lui. Non m’arcordo i dettagli della conversazione ma il babbo mi fece capire che dovevo prendere una decisione. Aveva capito che forse non avrei dovuto inscrivermi a Farmacia e che se pensavo di cambiare e di iscrivermi ad un’altra facoltá lo dovevo far presto, subito. Non dovevo perder più tempo, e mi rassicurò che per quanto poteva m’avrebbe aiutato.

Ed io avrei aiutato lui. Dopo pochi mesi avrebbe raggiunto i sessant’anni e sarebbe andato in pensione e aveva giá in mente un paio d’attivitá da iniziare. Non gli interessava fare il pensionato. Era come suo padre, il nonno Barbino, che aveva lavorato fino ad 85 anni.

Tornai a Firenze e per dirla in inglese, che certe volte m’artorna meglio, I felt like shit (ovvero: mi sentivo di merda). Non parlai con nessuno delle mie intenzioni. Prima di tutto dovevo esser sicuro della mia scelta e dopo non molto decisi che sarei andato a Scienze Politiche. Mi sembrò logico, in fondo era l’altra facoltá che avevo preso in considerazione prima di optare per Farmacia. Avrei studiato molta storia ed anche filosofia, le mie materie preferite; quelli che mi preoccupavano erano gli esami di diritto, sapevo di non aver la mente dell’avvocato. Una volta laureato avrei acquisito il bel titolo di dottore e niente altro, eccetto tanta libertá. Quello di cui ero certo era che non sarei andato dietro un banco a vender aspirine e preservativi, e diventar ricco.

Dopo pochi giorni feci il grande annuncio, ed i miei colleghi di Farmacia sembrarono contrariati, forse mi considerarono un traditore.

Alfio, il mitico bitello di Scienze Politiche, che ne sapeva piú del preside Maranini, mi fece avere le firme di due professori che non m’avevano mai visto, come se avessi seguito i loro corsi da uditore, e questo mi avrebbe permesso di presentarmi alla sessione d’esami di gennaio.

E mi misi a studiare Geografia Politica e Storia I.

Oggi, con l’esperienza del tempo, capisco che in questo momento di passaggio cercai anche di creare una nuova immagine di me stesso. Decisi di farmi crescere la barba. C’erano stati altri tentativi in precedenza ed proposito della barba scrissi un M’Arcordo…

 https://biturgus.wordpress.com/21-m%e2%80%99arcordo%e2%80%a6%e2%80%a6garibaldi-e-la-mi%e2%80%99-barba/

Ed una sera di novembre mi rasi per l’ultima volta. Certo non  fu un evento di grande consequenze storiche. Quello che fu storico e non ha nulla a che fare con me, fu il fatto che dopo un paio di giorni il presidente Kennedy fu assasinato. Ogni anno, vivendo negli Stati Uniti, quando sento commemorare il tragico evento, riscopro da quanto tempo ho la barba. Facile!

Quando mia madre apprese le mie intenzioni mi disse: “Questa volta, se ti fai crescere la barba, non te la devi togliere più.”

Sono stato obbediente per 47 anni.

 

Questa è forse la mia ultime fotografia con il volto rasato. Me la fece Paolo Salvi durante una gita al Lago Trasimeno nell’ottobre del 1963.

Marblehead , 1 ottobre 2010

Fausto Braganti

ftbtaganti@verizon.net

 

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