88 M’Arcordo… l’ultimo luccio del mi’ babbo.

                …ovvero quando andavano a pescare.

 

1965-09 Albiano, Renato Bragantii e il luccio

Quando ero picino, dopo guerra, c’erano due categorie d’omini: i cacciatori e i pescatori. Se uno non apperteneva ad una di queste categorie non contava, diciamo che non esisteva, almeno per me. Questo era quello che credevo fosse importante nella vita d’un uomo. Penso che forse ero armasto all’uomo cacciatore-raccoglitore, al neolitico, anche se di certo allora non sapevo che cosa fosse.

 

 

Forse ‘l mi’ babbo apparteva ad una categoria ancora piú rara: lui non solo era cacciatore ma anche pescatore. La mamma si lamentava perché lui spariva, spariva sempre. Quando arrivava la domenica, anche a secondo della stagione, o con la scusa della caccia o con quella della pesca, lui partiva. Ma per il babbo non era una scusa: era una missione. Sembrava che, come nell’uomo delle caverne, ci fosse in lui questo impellente bisogno d’andare alla ricerca del cibo per il sostentamento dei suoi. Bah, per fortuna si poteva andare a far la spesa alla bottega, altrimenti, con quello che lui arportava a casa, di certo saremmo morti di fame. Ma questo non si dice, rimane un segreto di familia

A proposito della caccia ne ho giá parlato nel:

 53 M’Arcordo…quando andavano a caccia.

https://biturgus.wordpress.com/53-marcordoquando-andavano-a-caccia/

‘sta volta parlerò della pesca. Tanto per cominciare la pesca aveva bisogno solo d’una canna, delle lenze, ami e lombrichi, tutti oggetti molto più a buon mercato del fucile e delle cartucce. Se uno voleva fare lo spendaccione poteva comprare un mulinello. Era anche più facile, uno non aveva bisogno della squadra, chi faceva il battitore e chi se metteva a la posta, in fondo bastava la bicicletta ed andare ad un gorgo dove si sperava che il pesce avesse fame e voglia d’abboccare. Spesso il babbo andava con uno o due amici e penso che fosse solo per farsi compagnia.

Ma anche per la pesca, come per la caccia, ci voleva la patente. E c’era anche un quardiapesca, che girava in vari posti per controllare che i pescatori fossero in regola. A questo proposito si raccontava la storia, ma poi chissá de fosse stata vera, d’uno di questi guardiani ittici, che sicuro di questa sua autoritá, si credeva importantissimo. Non m’arcordo come se chiamava, ma forse c’è qualcuno che lo saprá.                                                       (M’hanno appena detto ch’era ‘l Mafucci)

Questo guardia-pesca era anche pescatore lui stesso ed una volta invitò un paio d’amici ad andare per fargli compagnia. Allora, secondo quello che è stato tramandato, si racconta che ad un certo punto mentre stava con la canna in mano sulla riva d’un fiume, per una qualche ragione, forse si doveva allontanare per far pipi, chiese ad uno degli amici non pescatore che l’avevano accompagnato:

“Tiemme la canna, artorno subito. Me raccomando, ‘n te lo fa’ scappa’ s’abocca.”

E questo sprovveduto tutto preso da quest’impegno rimase con la canna in mano ad aspettare, fino a quando ‘l guardia-pesca artornò e con tono molto severo:

“Ma te la patente per peschere ce l’hai?” rivolgendosi all’amico a cui aveva lasciato la canna.

“Ma no, io ‘n ce l’ho! Io ‘n so’ mai anfato a pescare e tu lo sai.”

“Alora te faccio la contravenzione, stavi pescando senza la patente.”

“Ma la canna me l’hai te da tenere!”

“E te dovevi di’ de no, perchè ‘n c’ivi la licenza.”

L’amico credeva che la guardia scherzasse, ma se sbagliò, gli fece la contravenzione per davvero.  ‘sta storia me l’arcordo cosi, ma poi come ho giá detto: chissá se sará vera.

Il comun denominatore della pesca e della caccia erano le gran balle che si raccontavono, si parlava sempre della lepre o del pesce piú grande che fosse mai  stato preso.

‘l babbo non me portava mai a caccia e questo mi dispiaceva, diceva ch’era pericoloso, invece la mamma era contenta che io rimanessi a casa. M’arcordo solo d’una passeggiata col fucile nelle colline dietro la Pieve Vecchia (oggi L’Oroscopo) salendo verso ‘l Roccolo della Villa Nomi, poi verso la Sassaia ed infine sotto la Grillaia. E fu solo una passeggiata, non tirò manco ‘na schioppettata. Mi prometteva che un giorno, quando sarei diventato grande, anch’io avrei avuto un fucile e sarei andato a caccia con lui. Ma quel giorno non venne mai: piú o meno quando avevo circa dieci anni (1951) ‘l babbo decise di smettere d’andare a caccia e vendette anche ‘l fucile. La mia carriera fini prima de ‘ncominciare, e lui si concentrò sulla pesca.

In compenso a pescare mi ci portava. M’arcordo d’esser stato così piccino che mi metteva sul seggiolino sulla canna della bicicletta e per proteggermi, s’era freddo, la mamma me infilava un giornale sotto la maglia sul petto ed il passamontagna in testa, quello col copriorecchi.

Le mie prime spedizioni non mi portarono lontano. I posti preferiti del babbo erano certi gorghi della Tignana, sopra San Pietro, vicino al ponticello pensile di San Gilio; penso che questi siano finiti sotto l’acqua del lago di Montedoglio. Oppure s’andava sul Tevere alle Buiane dopo la Madonnuccia o ad un gorgo, anche questo sul Tevere, proprio all’inizio della salita del Daga, prima di Pieve Santo Stefano, dove ‘na volta, come mi raccontava lui, facevano il trapelo.

Poi le cose cambiarono drasticamente: ‘l babbo comprò dapprima ‘na vecchia moticicletta, una Ganna col cambio a mano, e poi, dato che questa spesso lo lasciava a terra, decise di prendere una Vespa 125 (1952).

Gli orizzonti si allargarono. Poteva scalare il passo di Verghereto e scender giú  in Romagna fino al Savio e le carpe del Lago di Quarto non avrebbero piú avuto una vita tranquilla. Altre volte preferiva esplorare il Tevere verso l’Umbria, da Promano giú fino a Ponte Felcino, sotto Perugia. E non va dimenticata la Sovara, ma non m’arcordo dove fossere dei buoni gorghi.

Come ho detto per pescare c’era bisogno d’una canna col mulinello, di lenze, degli ami ed anche dei bachi o meglio dei lombrichi. Il babbo ottimista e speranzoso di gran pescate aveva anche un bel paniere di vimini, colla cintula de pelle per metterlo a tracolla. Si apriva da un lato e c’era anche un buco quadrato sul coperchio che si allacciava con un cintolino. Gliel’aveva fatto Leonardo Luzzi de Viaio,  il marito di sua cugina Bianca. Leonardo era un vero maestro e con i vimini era capace di fare non solo panieri ma delle vere e proprie opere d’arte. Il babbo n’era fiero e forse pensava che le trote sarebbero state contente nel sapere ch’erano finite in un canestro fatto dal Luzzi de Viaio, lo stesso ch’aveva fatto dei meravigliosi manichini di vimini per un gran negozio di New York.

Parliamo di lambrichi: ovvero de lumbrichi come se dice ‘n borghese o anche bechi. C’ero uno che aveva ‘ncominciato ‘n allevamento de’ lumbrichi. Stava dalle parti dell’ospedale, quello vecchio, ed in un magazzino al piano terra de casa sua aveva diversi barattoloni de latta pieni d’una terra scura e grassa. Stavano lá tutti in fila e quando ‘l babbo me mandava a far una provvista lui mi portava in quella stanza buia e con una specie di badilino cominciava a rumare in quella terra molla e tirava fuori i lumbrichi tutti ingrovigliati e me li metteva in scatolina de latta, ma facevano ‘n po’ schifo. E non me piaceva quando dovevo ‘nfilare un lumbrico nell’amo, ma poi alla fine anche se un po’ titubante lo facevo, non volevo sembrare un vigliacco.

Il grande amico pescatore del babbo era Dario Alberti, ‘l babbo de Libero. Penso ch’avevano scoperto questa comune passione molt’anni prima della guerra e tante erano le storie d’epiche pescate o di strane avventure. Io due erano amici e credo si dessero del “Lei”. Anche se politicamente erano all’opposto, pescando assieme avevano formato una specie d’alleanza che in verie situazione servì a superare momenti difficili. Dopo una spedizione ad un gorgo del Tevere, penso dalle parti delle Buiane, decisero ch’era l’ora d’artornare a casa. Era una belle serata verso la metá di settembre (1943), e c’è ancora luce. Dopo la Madonnuccia, quando s’avviarono lungo quel pezzo della vecchia strada tutta dritta, anche questa oggi ‘n fondo al lago, costeggiata da due filari di pini ad ombrello, videro lontano verso San Pietro della gente che di corsa traversava la via. Venivano dalla parte de Gragnano e sembrava che andassero verso nord. Ma chi erano? Erano tanti, una fiumana di gente. Per un momento pensarono che fosse un funerale, ma nessuno corre ai funerali, neanche i bersaglieri. Si insospettirono, e pensarono subito ch’era ‘na cosa strana, forse era meglio esser prudenti, gli eventi degli ultimi giorni promettevano solo calamitá. Si fermarono e scesero dalla bicicletta in un fosso e rimasero ad osservare. Non ricordo i dettagli ma penso che arrivò un contadino di corsa e questi alla domanda:

“Ma che succede, ma chi è tutta quella gente?”

“Sono gli slavi, i prigionieri dei Renicci, dopo l’armistizio le guardie se ne sono andate e loro son fuggiti. Artonnano a casa loro.”

Quella era la via per artornare in Jugoslavia e s’incrociava proprio con quella de Dario e Renato che volevano artornare a casa al Borgo. Decisero che era meglio lasciarli passare. Dopo anni in un campo di concentramento i prigionieri non sono sempre pronti ad un dialogo amichevole con chi li ha tenuti in gabbia.

In tutta questa storia non fu mai tramandato se in quel giorno avessero fatto una buona pescata o no.

Poi Dario Alberti, verso la fine degli anni cinquanta, andò a lavorare a Parigi, sempre per la Buitoni. Non ho mai sentito dire se partì con la canna o che sia andato a pescare nella Senna, ma ho ritrovato fra i ricordi del mi’ babbo una cartolina che scrisse, sembra che fosse ottimista sui i risultati della pesca francese.

 

La bonne peche

 

La preda con un bikini rosso era di gran lunga piú ambita de ‘na trota de la Tignana.

Un altro grande compagno pescatore del babbo era il maestro Turiddo Guerri, ma questo mi creò dei gran problemi. Lui era anche il mio maestro e qualsiasi cosa facessi ‘l babbo lo sapeva subito, non c’era scampo. Ma perchè ‘l maestro era pescatore? Bella fregatura. Penso che fra tutti i compagni pescatori lui sia stato quello che sia durato piú a lungo. Credo che ll maestro, che fra poco piú d’un mese fará cent’anni, sia andato a pescare fino a non tanto tempo fa. M’arcordo che durante una delle mie visite lo trovai in giardino che era tutto ‘ndafarato nel fare qualcosa, aveva piccole lime, pinze, e non so cos’altro.

“Ma cosa fa Maestro?”

“Faccio un amo.”

“Un amo?”

“Si. Mi piace farmeli da me.”

Forse ci metteva ore per fare qualcosa che avrebbe potuto comprare per poche centinaia di lire. Ma per lui era importante affermare questo senso di autosufficienza. Se si fosse trovato in un’isola deserta come Robinson Crusue, lui ce l’avrebbe fatta. Forse è stato proprio questo suo intrepido spirito d’indipendenza che l’ha aiutato a raggiungere i cent’anni.

Poi c’erano gli scherzi, anche se non son del tutto sicuro della veridicitá dei fatti, questo ve l’arconto lo stesso.

Nella tradizione orale del Borgo c’era la storia d’una famosa cena, una vera Cena della Beffe.

Fra i tanti pescatori c’erano anche quelli ch’avevano la nomea, che poteva esser del tutto infondata, d’essere delle gran schiappe. Uno di questi era ‘l Blasi, quello ch’aveva una merceria all’incrocio di Via Giovanni Buitoni e la Via Maestra, ma lui ‘n bottega ci stava poco. Un giorno ‘l Blasi pescò una grandissima carpa, enorme. La notizia fece scalpore fra i pescatori della valle: una carpa delle incredibili dimenzioni, una carpa che aumentava di peso ogni volta che veniva menzionata. Ed il Blasi gongolava e tutte le sue paure d’una maledizione iellatrice erano sfumate col il suo sorriso di vittoria. Quando il Blasi si rese conto della sua incredibile preda decise che doveva arportare a casa il pesce vivo, tutti lo dovevano vedere. Non so come fece, ma la sua preda si ritrovò in una gran vasca ch’aveva nell’orto. La carpa si riprese e sembrava contenta anche perchè si diceva che lui le portava da mangiare tutti i giorni. Ma cosa mangiano le carpe? Si diceva anche che addirittura le parlasse, come fosse un cane. Ma non si accontetava d’ammirare da solo la sua carpa, invitava sempre gli altri pescatori a venire ad ammirarla, forse si sentiva come se avesse arpionato e portato a casa Moby Dick vivo. Fu forse proprio questo suo entusiasmo o forse aveva rotto le scatole un po’ troppo che fece alla fine germogliare nella testa di qualcuno un’idea:

“Dobbiamo organizzare una gran cena, una gran cena di pescatori.”

E cosi fu fatto ed anche ‘l Blasi fu invitato.

Non so dove l’infame delitto fu consumato, ma come avete giá forse capito il piatto d’onore fu una gran carpa, bella, grassa e imporchettata. Fu il gran trionfo del cuoco (?) ed anche ‘l Blasi la mangiò e solo al mattino successivo scoprì che la sua carpa adorata era sparita dalla vasca. Si disse che fu un miracolo che non gli venne un attacco di cuore. Alcuni cercavano di consolarlo dicedogli che proprio la cena era stato il suo vero trionfo, aveva condiviso la sua preda con gli amici.

“Ma che, volevi che morisse de vecchiaia?”

Non lo convinsero e si dice che per anni non rivolse la parola ad alcuni di loro. Credo di sapere i nomi di alcuni di quei furfanti beffardi, ma per il momento mantengo il segreto.

‘l sor Marco Buitoni aveva una villa dopo la Motina, Albiano. C’era un laghetto artificiale ed il sor Marco se lamentavo col mi’ babbo perchè qualcuno ci aveva buttato dei lucci e questi piccoli squali d’acqua dolce s’erano mangiato tutto. Alla fine ci fu un invito ufficiale da perte del sor Marco.

“Sor Braganti venga a pescare un po’ de ‘sti lucci.” E cosi unpomeriggio di settembre del 1965 andammo, giacca e cravatta, a trovare il sor Marco che ci portò subito a questo laghetto. Cominciò così una specie di mattanza di lucci. Questi dovevano esser tanti e dovevono esser anche affamati, perchè ogni volta che il babbo tirava la lenza, dopo pochi secondi, c’era un pesce ch’aveva abboccato. Anche il sor Marco, a cui ‘l babbo aveva offerto la canna, ne prese uno e sembrò soddisfattissimo.

 

1965-09 Albiano Marco Buitoni e Renato Braganti a pescare in giacca e cravatta.

 

Credo che quella sia stata l’ultima pescata del mi’ babbo, mori dopo poco piú di tre mesi, il 5 gennaio del 1966.

 9 gennaio 2011, Marblehead, MA USA                                                                                     

I  vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete!

 Fausto Braganti      

ftbraganti@verizon.net

 

Una Risposta to “88 M’Arcordo… l’ultimo luccio del mi’ babbo.”

  1. Giovanni e Aidi Says:

    Ci sei mancato molto! Quella del guardiapesca è vera e io lo conoscevo bene, era un assiduo cliente del Neo Bar. Senza fare nomi (il cognome è stato già fatto) ti racconto che da ragazzotto andavo a pescare senza patente e lui che lo sapeva mi aveva preso di mira. Quando volevo andare a pescare gli chiedevo dove fosse meglio andare e me ne andavo da tutt’altra parte a quella che mi indicava. La sera veniva a prendere il caffè e mi chiedeva “Come mai ‘nci si venuto al Cadutone?” “C’ho avuto da fere e ‘no potuto” naturalmente ero andeto al Pozzaccio e a le Briglie… non m’ha mai preso!!! Le Buiane, la Madonnuccia, la Tignana…. tutto sott’acqua ci andevo anch’io: pecheto!!
    La caccia al Roccolo de Villa Nomi mi ha aperto il cuore. In quel roccolo che è di proprietà dell’Aidi ci passo tutta l’estete e me vengono a trovere, oltre a tantissimi amici umani, fagiani, lepri, una copia de upupe meravigliose, scoiattoli, daini, istrici e cinghiali. A volte fanno i danni ma non me dispieci.. pacenza. La Sassaia che qualche anno fa facevo con la bicicletta scendendo la Misceno adesso è recintata nella proprietà di Villa Cantagallina, della famiglia Inghirami, ma alora ci passevo e riscappevo ai Sassi Rossi… che tempi! A febbraio è un po freddo ma te ci porto a vedere me farebe dimolto piacere.

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