A dir la verità il pastrano lo porto ancora, ma de rado. Diciamo che lo tiro fuori per le grandi occasioni. Ma torniamo indietro, come al solito.
Il nonno Barbino aveva un cappotto nero e lungo a doppio petto, mi sembra con tanti bottoni ma lo metteva de rado, diciamo che anche per lui valeva la stessa regola: lo tirava fuori per le grandi occasioni. Ma poi quali fossero queste non lo saprei dire, forse i funerali d’inverno. Lui preferiva portare il pastrano, ma lo chiamava ‘l rotolò. Il termine più corretto dovrebbe essere mantello o anche mantella, Quella che poi divenne famosa durante la Grande Guerra fu la mantellina, quella grigio verde che, assieme alle fascie mollettiere, divenne l’indumento caretteristico d’un inter’esercito.
Il dimininuitivo non veniva dal fatto che fosse carina ma piuttosto da quello ch’era corta, forse per risparmiare la stoffa. Scorciandola anche d’un solo centimetro immaginate quanti soldi han fatto quelli che si accaparravano gli appalti delle divise. A questo proposito, anche se poi non c’entra niente colla storia del pastrano, tanto tempo fa conobbi a Boston un signore molto ricco e mi dissero anche che aveva il soprannome di Mr. Button (sig. Bottone). Mi raccontarono poi che durante la seconda guerra mondiale aveva una fabbrica di camice per l’esercito ed aveva fatto i soldi riducendo il numero dei bottoni, aveva ampiato la distanza fra un asolo e l’altro: uno in meno per camicia, ma sarà vera?
A quei tempi ognuno, o quasi, sapeva quello che poteva indossare, quasi fosse una divisa. Infatti era tipico e solo dei signori di campagna, i possidenti, il cappotto di casentino arancione, quello foderato di verde e con il colletto di pelo di volpe e l’ultimo al Borgo che ricordo con tale indumento era il Benedetti.
Un altro termine è tabarro, credo sia molto più usato nel nord. Immagino vecchi contadini intabarrati sperduti nella nebbia del Polesine, un po’ come il nonno di Titta (Fellini) nel film Amarcord. C’è anche un’opera ad un atto di Puccini con tal nome
Più classico, è la cappa. Vi ricordate? Ci sono i romanzi di “cappa e spada” e i Tre Moschettieri (che poi diventano quattro quando arriva D’Artagnan) sono gli eroi per eccellenza con il mantello svolazzante, ma poi non dimentichiamo Zorro. Ci sono i personaggi come Edmond Dantes che se da marinaio forse aveva una giacchetta corta e stretta e poi come Conte di Montecristo indossava solo un gran manteau della migliore stoffa, magari uno di quelli con una piccola sopramantellina che gli copre le spalle. Insomma ci son tanti mitici personaggi che non possiamo immaginare con un cappotto di loden. E come avrebbe fatto San Martino se avesse avuto indosso una giacca a vento?
Il mantello a ruota è quello vero, quando si stende per terra forma un cerchio perfetto, completo. Non ci sono tagli che poi ricuciti formano le spalle, questi son fatti quando si vuole risparmiare la stoffa.
Credo che come capo di vestiario sia uno dei più antichi, essendo in fondo il più semplice, anche se poi si è evoluto nella perfezione del taglio, nella lunghezza, nella qualità della stoffa e negli elementi decorativi. C’era tutta una gamma di stili, si partiva da quello prezioso del papa per arrivare a quello di panno grezzo del povero contadino che a sera lo buttava sul letto per farne una coperta in più. Oggi son rimasti quelli eleganti dei carabinieri, quando si mettono in alta montura, lunghi, neri e con la stoffa della fodera di raso rosso. Anche certi alti prelati della chiesa sfoggiano gran mantelli.
Quando ero ‘n citto picino ogni domenica mattina c’era sempre un gruppo d’omini che s’ardunavano ‘n piazza Torre di Berta, prima di pranzo e molti venivano dalla campagna vicina. I contadini lavoravono duro ed erano isolati nei loro poderi, questa era il momento che si incontravano, si scambiavano le idee e forse parlavan anche male dei padroni e dei fattori. Molti fumavano un mezzo toscano, altri la pipa e c’erano ancora quelli che l’avevano di coccio e quando era freddo si vedevano molti erano avvolti nei loro pastrani neri o grigio scuro.
Ho un m’arcordo lontano lontano, forse venivo da scuola per tornare a casa, quando ancora si stava in via della Firenzuola, ed ho incontrato il nonno in piazza ed era tutto intabarrato con il cappello nero. Cominciava a piovere e lui mi chiamato;
“Vieni sotto.” e mi coprì avvolgendomi con un lembo del rotolò e mi accompagnò a casa. Camminavamo in silenzio ed io vedevo solo le sue scarpe e le pietre luccicose della strada bagnata e mi sentivo protetto, sicuro sotto il mantello del nonno.
Alla sua morte, ero ancora al liceo, ebbi in eredità il suo libretto di risparmo, una pipa “non canta la raganella”, una scatola di sigari toscani ed il suo mantello che fu messo da parte.
Ho già parlato della vita da studente a Firenze negli anni sessanta e dei goliardi che portavano il mantello. Fu allora che m’arcordai d’avere quello del nonno, o almeno così credevo. Andai a cercarlo in un vecchio baule in cantina e scoprii che le tarme c’erano arrivate prima di me, era pieno di buchi, a brandelli; per fortuna non avevano mangiate le borchie leonine e la catenella.
Allora comincia la mia ricerca nelle bancarelle di surplus militare del mercato di San Lorenzo a Firenze, speravo forse di trovare almeno una mantellina grigioverde come quella che aveva Massimo Carlotti, era stata di suo nonno. Ma non trovai niente.
In quegli anni (1963-’64) c’era un’anziana coppia d’ambulanti di stoffe che veniva al mercato del sabato a Sansepolcro, penso fossero romagnoli. Questi si piazzavano sempre il loro banco davanti al Palazzo Graziani e parcheggiavano la vecchia Balilla all’inizio di via del Buonumore. Quell’era l’ultima Balilla ch’abbia visto in circolazione, era il loro mezzo di trasporto e di lavoro e non un pezzo d’ammirare ai raduni di vetture d’epoca. Mi fermai per chiedere loro se avessero una mantellina della Grande Guerra.
“No, no ce l’ho, ma ne ho un’altra, grigio scura.” Andò alla macchina e si mise a svuotarla, per ritrovarla in fondo a tutto, seppellita da panni di tutti i tipi. Me la diedero per pochi soldi, non c’era più nessuno che la comprava ed la stoffa era di qualità scadente, molto più leggera di quella del nonno, forse sarebbe meglio definirla cenciosa. La mamma mi attaccò le borchie leonine ed così cominciai ad andare in giro immantellato e non solo alle feste goliardiche ma anche al Borgo, come mi ha ricordato Marco Boninsegni e l’Anna del Piazzone.
Non mi m’arcordo, mica m’arcordo de tutto, chi mi disse come si portava un mantello. Non ci sono maniche quindi non c’è nulla da infilare, si poggia sulle spalle tirando il più possibile il lembi sul davanti, poi si prende quello sinistro con la mano destra e si tira in senso orario fino ad avvolgere tutto il corpo per riportarlo quasi sul davanti all’altezza dell’anca sinistra. Per assicurasi che rimanga al suo posto si infila l’ultimo angolo sotto la cintura dei calzoni. La spalla ed il braccio sinistro son ben stretti, ed ecco il momento del gran gesto, oserei dire melodrammatico, con la mano si prede il lembo destro e si lancia con un gran svolazzo sopra la spalla sinistra per farlo cadere nel di dietro sulla schiena e li dovrebbe rimanere.
Posso anche aggiungere che quel mantello fu un bell’investimento: piaceva alle ragazze. Al momento opportuno con quel gesto romantico lanciavo un lembo sulla spalla della potenziale conquista e l’avviluppavo, in fondo come mio nonno aveva fatto quella volta con me. Era una prova indicativa per capire come sarebbe andata a finire: se rimaneva sotto il mantello e magari ti abbracciava dal di dietro poggiando il braccio sul fianco mentre il mio si poggiava sulla sua spalla, c’erano buone speranze di successo. Se invece sortiva dall’abbraccio rimaneva solo un gesto galante senza cosequenze. Inoltre dato che appartenevo al Sacro e Privato Ordine del Cilindro portavo spesso anche la tuba. Ne avevo trovata una ad un mercatino a Firenze: era inglese di pelo di castoro, lucido e ben rasato, in ottime condizione e l’avevo pagato solo 1.000 lire, tre pranzi senza vino alla menza. Peccato che la tuba sia così passata di moda, era il cappello ideale per uno basso come me. In due sotto quell’ampio mantello, anche se si passeggiava per la strada, si trovava una sensazione d’intimità, e da cosa nasce cosa. Col tempo e l’esperienza si fanno le amare costatazioni dell’occasioni perdute. Devo ammetter che forse quel mantello non fu utilizzato al massimo delle sue potenzialità. Per dirla in maniera più semplice: ma quante volta sono stato proprio ‘n bischero!
Debbo anche angiungere una storia del mi’ babbo, di quando usava il mantello d’un altro per fare le sue conquiste, diciamo di riflesso. Quando le ragazze erano in vena di fare nuovi incontri escivano in coppia, forse per farsi coraggio. Frequentavano quiei locali dove pensavono d’incontare “casualmente” qualcuno interssante. Son diventato troppo grande (per non dir vecchio) e da troppo fuori dal giro per sapere se questa regola vale ancora. Poi alla fine erano sempre loro quelle che decidevano se accettare o no la corte dei pretendenti. Questa regala è sempre valida, la donna sa sempre come andrà a finire molto prima dell’uomo e questo si deve accontentare solo della speranza.
Dopo queste divagazioni filosofiche torniamo al babbo. Negli anni trenta, quando era ancora scapolone, spesso andava a Firenze a trovare uno dei suoi migliori amici ch’era un ufficiale di cavalleria, non son sicuro che fosse ufficiale, ma di certo aveva un bellissimo ed elegante mantello azzurro, forze cucito da uno dei sarti dell’Unione Militare in piazza Strozzi. Assieme giravano per i caffè del centro, immagino sotto i portici e piazza Vittorio Emanuele, oggi della Repubblica. Non ho dettagli delle avventure dai due cacciatori, ma so che il mantello aveva un ruolo di primo piano nell’acchiappare la selvaggina, le ragazze eran ben disposte ad parlare coi due giovinotti.
L’amico morì, quando la guerra era già finita, si trovò dalla parte di quelli ch’avevano perso.
Finii l’università, era arrivata l’ora di diventar grandi. Presi decisioni che alla fine mi portarono in America e quando venne il momento di fare il baule capii che in fondo non mi potevo separe dal quel mantello cencioso, era parte della mia vita, anche se poi sapevo che ci sarebbero state ben poche occasioni per portarlo.
Durante una mia visita al Borgo (1983) e non m’arcordo per quale ragione mi misi a parlare con il mio amico Paolo Massi di mantalli e che mi sarebbe piaciuto trovarne uno o trovare un sarto che me lo cucisse. Penso che fu la Sora Ida, la su’ mamma, che sentendo la conversazione intervenne:
“Conosco una sarta a Celalba, dopo San Giustino, è brava e son sicura che ti può fare un vero mantello a ruota.”
La Sora Ida aveva ragione. Paolo mi trovò la stoffa, un panno pesante di loden grigio metallico e ce ne volle tanto. La sarta, sapendo che dovevo ripartire dopo pochi giorni, mi fece subito un bellissimo mantello e di sua iniziative ci angiunse anche un cappuccio attaccato con dei bottoni e facilmente rimovibile. Arrivato a casa a Marblehead attaccai le vecchie, ormai antiche, borchie leonine con la catenella, quello era il terzo mantello che servivano, considerando lo stile di certo militaresco, credo che prima di quello del nonno di mantelli ne avevano visti altri. Come ho detto all’inizio, lo metto di rado, in genere durante le feste di Natale e magari quando c’è la neve e magari ad Halloween non perdo l’occasione per mettermi il cilindro, sembro più alto. Non credo d’esser cresciuto molto in questi ultimi anni, anzi al contrario penso d’essermi scorcito. Altre volte metto il tricorno con le piume rosse e blu, ancora mi piace giocare a fare D’Artagnan.
E per finire: guardate come Pascale si è avvolta nel mantello, avete notato ch’è mancina?
Mia figlia Tanya ha colto al volo la foto di quel misteriosa personaggio che compare all’inizio della storia. Non ha scattato la foto a Venezia, ma bensì a New York, lo scorso gennaio, quando cominciava a nevicare.
In uno dei primi M’Arcordo… quello in cui ho parlato dell’avventurose spedizioni a Montecasale c’è una nostra fotografia da intabarrati.
https://biturgus.wordpress.com/2008/06/29/08-m’-arcordo-quando-s’-andava-a-montecasale/
3 aprile 2011, Marblehead, MA USA
I vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete! Fausto Braganti
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Skype: Biturgus (de rado)
aprile 12, 2011 alle 6:08 PM |
Ho appena letto il tuo m’arcordo del “mantello a ruota”.La mia “empatia” non mi ha tradito .Lo ho “ascoltato” come in una fredda sera d’inverno ,la fiamma del focolare ormai quasi spenta, ormai sileziosa per non disturbare la voce dei ricordi . Ciao,grazie .Giorgio!
aprile 13, 2011 alle 4:53 am |
Grazie Giorgio
e proprio la tua empatia mi rasserena, non mi conosci e mi hai capito:
i miei M’Arcordo… son narrati, magari, come dici tu, accanto al focolare ed io aggiungo fumando la pipa.
(arcontati, nel dialetto di Sansepolcro e c’e’ quasi piu’ nessuno che lo parla)
aprile 25, 2011 alle 6:08 PM |
sono 12 anni che mia moglie ed io andiamo in campeggio alla “Montesca ” a CITTA’ DI CASTELLO “.Conosciamo bene SAN SEPOLCRO . Sono 2 ore che cerco di “asoltare altri tuoi m’ arcordo e raccontarti uno dei miei , ma ……. troppo difficile : mi arrendo! Buona notte Fausto. P.S. ci sono persone che vedi o incontri per la prima volta , ma con le quali ti sembra di aver vissuto già chissà quando ,chissà dove .Tu sei una di quelle “persone”. Giorgio.