ovvero il mito della vichinga e, tanto ci siamo, la battaglia di Monte Cassino
Anche se ancora non lo sapevo in quel viaggio non feci più l’autostop, ma di kilometri ne feci tanti lo stesso, e tanti più del previsto.
Come ho già arcontato all’ostello di Colonia avevo incontrato un romano, poi rimasto senza nome nella mia memoria; assieme avevamo lavorato al porto fluviale sul Reno. Mi convinse a continuare il viaggio con lui anche se per qualche ragione sconosciuta non m’era simpatico, lui aveva il vantaggio d’avere una Lambretta. Io avrei pagato per la metà della benzina, o meglio della miscela. A questo proposito debbo precisare che, anche se non ce l’avevo più, io nel cuore ero rimasto un fedele vespista.
Ma forse una ragione della mia antipatia c’era ed era anche semplice, in me c’era un certo risentimento, forse addirittura gelosia, ed ecco la spiegazione:
Una domanda rituale, forse la prima, fra due autostoppisti è:
“Dove vai?” seguita poi da: “Da dove vieni?”
E lui mi rispose:
“A Copenhagen. Vado a trovare la mia ragazza.”
Ma che coincidenza, anch’io andavo a Copenhagen per incontrare una ragazza, anche se non potevo dire che fosse la mia, almeno speravo che lo sarebbe diventata. Quando gli chiesi dove l’aveva conosciuta, mi risposa che ancora non l’aveva mai incontrata di persona, fra di loro c’era atata solo uno scambio di lettere. Ma che coincidenza, anche lui aveva un amore per corrispondenza.
“Guarda com’é bella!” e tutto orgoglioso tirò fuori la foto della ragazza.
Forse avete già capito? Era proprio lei: Kirsten, la “mia” ragazza!
Questa proprio non me l’aspettavo. Ecco: anche lui aveva risposto a quell’annuncio letto nella rivista degli Ostelli della Gioventù, ed anche lui aveva subito fatto la valigia ed era partito.
Fui sorpreso, amareggiato da quella scoperta; i miei sogni, le mie fantasie si dissiparono in un secondo, ma non gli dissi nulla. Allora capii: ma chissà quante copie se n’era fatte stampare di quella foto e chissà a quanti l’aveva mandata invitandoli, incluso me, ad andare a Copenhagen a trovarla. Lei aveva buttato la rete ed ora aspettava i pesci.
Oggi, ripensandoci dopo tant’anni mi viene anche un altro dubbio: ma quella sarà stata proprio la sua foto? Forse era una racchiona che si divertiva ad arrapare i testosteronici maschi latini e c’era riuscita, ma questo non lo saprò mai. Alcuni giorni dopo ci fu un’altra situazione a Copenhagen che comprovò questa tendenza scandinava alla beffa nei confronti degli stranieri, specie quelli del sud; ne parlerò più avanti.
Quello che ho imparato col tempo, e quanto ce n’ho messo, è che io ero un imbranato, uno di quei tanti frustrati che sognavano la grande avventura con la mitica donna del nord, alta, bella, bionda e … irrangiungibile. In fondo esisteva solo nella mia, nella nostra immaginazione. Forse era tutto cominciato con quell’indimenticabile e storico attacco frontale d’Anita Ekberg nella “Dolce Vita”. Anch’io sarei voluto saltare con lei nella Fontana di Trevi. Pochi anni prima era stata proprio quella scena che ritornava spesso a turbarmi e m’aveva dato tante lunghe notti inrequiete.
Avavo poi visto ed ammirato le vichinghe, sempre da lontano, sulla spiaggia di Miramare o di Rimini; erano loro quelle coi bikini più minuscoli, erano loro quelle con le gambe lunghe senza fine. E poi loro erano, come ci piaceva dire allora, emancipate. Questa era la parola magica che ha riempito la mia generazione di speranze non appagate. La donna emancipata era quella che sapeva quello che voleva e quando lo voleva, ovvero quella che se le piacevi non avrebbe fatto la difficile, non avrebbe detto di no, e non t’avrebbe bloccato la mano ch’era salita più su del ginocchio, anzi sarebbe stata lei ad incoraggiarti. Almeno questo era quello che credevo io, ma queste donne erano solo la creazione della mia fertile immaginazione. Mi consolo col dire che non ero il solo.
Sempre in quei tempi era uscito il film “Il Diavolo” che raccontava le tragi-comiche avventure di Alberto Sordi mercante di pellami in Svezia. Anche questo avavo rafforzato in tanti di noi questo mito delle vichinghe, che ci sembravano star là solo ad aspettar noi che saremmo arrivati dal sud. L’anno prima (1963) i balestrieri del Borgo erano andati in trasferta a Copenhagen, che qualche baldanzoso alla partenza aveva ribattezzato Scopenhagen; ma poi anche loro, per quanto mi fu detto, artornarono senza aver centrato il corniolo, ovvero non avevano arcattato un bel niente.
Come si può immaginare non c’era solo lo zaino che mi pesava sulle spalle!
Poi la scandinava l’incontrai per davvero, diversi anni dopo, e questa fu ‘na cosa seria, diciamo intensa e complicata, ma questa è meglio non l’arcontare.
La partenza era prevista presto al mattino, dopo quel giorno di duro lavoro al porto, dall’ostello di Colonia: destinazione Amburgo. Eravamo un bel carico per il povero scooter: avevamo legato dei bagagli ad una griglia ed io avevo il mio zaino in spalla. Un bel po’ di gente s’era ardunata nello spiazzo ed alcuni sembravano scettici sul risultato della nostra missione. Avremmo dovuto fare in quella maniera quasi 400km.
E partimmo.
Della prima parte di questo viaggio non m’arcordo quasi nulla eccetto che s’andava piano e ch’ero scomodo, molto scomodo.
Verso le cinque del pomeriggio, eravamo forse a 30km d’Amburgo cominciò a spiovigginare, ma non molto, e questo fu solo l’inizio dei problemi. D’improvviso e per fortuna s’andava piano, si sentì un gran scricchiolio, poi sentii che la Lambretta mi s’abbassava sotto il culo, e poi ci fu uno schianto e a ‘sto punto eravamo fermi: avevamo perso la ruota di dietro. E non cademmo per terra, sia io che il mio compagno eravamo riusciti a mettere i piedi per terra e la ruota persa era rimasta sul selciato alcuni metri dietro di noi. Non m’arcordo, ma forse pensai: ma perchè non sono andato in vacanza a Rimini? Di certo il mio compagno era disperato nel vedere il suo scooter in quelle condizioni, s’erano spezzati tutti i bulloni.
“E moh che famo?”
Cominciava ad inscurirsi, e s’era messo a piovere.
“Proviamo a fare l’autostop ai camion. Se no’ bisogna chiamar la polizia.” Ma come si fa a chiamare la polizia in mezzo della Germania?
Quasi subito comparve un camioncino che procedva nella nostra direzione e penso si fermò ancora prima che facessimo il tradizionale gesto col pollice. Un tedesco di mezz’età dall’aspetto burbero e con la pipa in bocca scese e si mise a studiare il danno. Scrollò la testa sconcertato e ci fece cenno di aiutarlo a caricare la Lambretta nel dietro del camioncino e ci invitò a salire in cabina con lui. Era arrivato al momento giusto: s’era messo a piovere a dirotto. Il mio compagno parlava un po’ di tedesco e fra i due ci fu una certa conversazione. Il nostro benefattore sembrava essere un tipo taciturno e la pipa in bocca rendeva ancora piú difficile capirlo.
Ci disse che lui era stato a lungo in Italia e che la conosceva bene; lui non era uno di quelli che era andato al mare a Rimini, lui era stato a Monte Cassino per poi continuare a risalire lungo la penisola. Almeno così mi tradusse il mio compagno.
Ci portò a casa sua, un appartamento in un palazzone di quello che mi parve un quartiere operaio alla periferia d’Amburgo. Quando la moglie lo vide comparire con due inaspettati ospiti non mi parve molto contenta, non era necessario sapere il tedesco per capire le sue lamentele. L’uomo non disse molto, ma non sembrva farci molto caso, e lei alla fine preparò una minestra e poi ci fece il letto con le lenzuola pulite, a me toccò il divano.
Ripensandoci quella era l’estate del 1964, ed eran passati vent’anni da quando il fronte era passato per il Borgo. Allora vent’anni mi sembravan tanti, sembravano una vita. Se oggi arpenso a vent’anni fa, allora stavo a New York: mi sembra che fosse ieri quando riincontrai Arturo di Modica, mio compagno all’università e scultore del gran toro di bronzo all’inizio di Broadway. La dimensione del tempo é relativa, è forse questa una prova della teoria della relatività? Con l’età cambia valore. Di certo per quel tedesco i ricordi della guerra eran molto più vicini e forse era passato anche pel Borgo.
I miei M’Arcordo… sono storie del passato, ma le rivivo e le scrivo nel presente. É inevitabile che tutto quello che è successo susseguentemente influenza il ricordo stesso, lo riinterpreta, come se lo rivedessi attraverso dei filtri e spesso lo censura. La memoria è anche selettiva; tende a minimizzare, a cancellare quello che è spiacevole e brutto.
Io non scrivo una cronaca.
E a proposito della Battaglia di Monte Cassino voglio aggiungere due episodi che poi mi fecero poi ricordare quel tedesco d’Amburgo con la pipa, mi sembra si chiamasse Helmut.
Nel 1983, allora lavoravo all’Alitalia a Boston, fui coinvolto nell’organizzazione d’un gruppo di polacchi che andavano a Vienna, dove ci sarebbero state grandi celebrazioni commemorative del tricentenario dell’Assedio. Il coraggioso intervento dei polacchi fu determinante nel liberare la città e nel fermare l’avvanzata dei Turchi. Non ci sono “se” nella storia, ma qualche volta è inevitabile speculare: se nel 1683 avessero vinto i Turchi Ottomanni forse oggi l’Europa sarebbe mussulmana. Dopo Vienna il gruppo sarebbe andati in Italia, con una visita a Monte Cassino, infatti fra di loro ce n’erano alcuni reduci della battaglia; avrebbero portato una corona al cimitero polacco. In quell’occasione fui invitato ad una cena prima della partenza e quella sera in mezzo a tanti discorsi spesso in una lingua incompresiva, pensai a quel tedesco taciturno con la pipa in bocca.
Passarono gli anni e nel 2000, allora lavoravo con la CIT, fui coinvolto come al solito nell’organizzare un altro gruppo per l’Italia. Questa volta erano reduci giapponesi-americani (100° battaglione, 442° reggimento fanteria) che erano stati invitati assieme alle loro famiglie dal Comune di Pietrasanta per l’inaugurazione del monumento ai caduti in guerra. Questi giapponesi avevano combattuto eroicamente coi partigini lungo la Linea Gotica nell’inverno ’44-‘45. Fu commovente la vedova d’un giovane (Sadao Munemori) commemorato nel monumento, che volle esser accompagnata nel luogo esatto dove il marito era caduto 55 anni prima. Ma il loro viaggio non finì in Versilia, anche loro andarono a Monte Cassino dove avevano combattuto l’inverno prima. Riuscimmo ad ottenere per loro un permesso speciale per entrare nella parte dell’abazia normalmente chiusa al pubblico dove in una grande vetrata ci sono le immagini che commemorano il sacrificio dei fanti del 100° battaglione. Credo che sia il battaglione piú decorato nella storia dell’esercito americano, almeno mi fu detto.
Anche questa volta fu inevitabile per me non ripensare a quel tedesco d’Amburgo, al nostro buon samaritano. Lui di certo aveva sparato a quei giapponesi, lui aveva sparato a quei polacchi. Ci sarà mai poi lui ritornato a Monte Cassino per commemorare i suoi camerati morti?
Artorniamo ad Amburgo, luglio del 1964.
La sua opera di carità non finì li. Al mattino partimmo presto per andare a cercare da tutt’altra parte d’Amburgo il pezzo di ricambio per la Lambretta. M’arcordo che per la prima e forse l’unica volta, vidi degli spazzacamino in bicicletta con la tradizionale tuba in testa. Trovato il pezzo ci riportò al suo garage dove riparò la ruota. Per ringraziarlo andammo a comprare una cassa di birra e dei fiori per la moglie, che finalmente ci sorrise soddisfatta, forse anche perché si partiva.
Il mio compagno era furioso per quanto gli era costato quel pezzo di ricambio e voleva che gliene pagassi la metà, in fondo penso che m’accusasse ch’era stato proprio il mio peso a causare il danno. Mi rifiutai: il nostro accordo si limitava a condividere le spese per la benzina. Gli dissi inoltre che non avrei continuato il viaggio con la Lambretta, il giorno dopo avrei ricominciato a fare l’autostop.
Anche se di malumore rimasi assieme a lui e dopo esser andati all’ostello, ma non son sicuro, forse andammo ad un campeggio, ci mettemmo ad esplorare la città. Nella tradizione orale di quei tempi, e forse é un discorso ancora valido, c’erano le mitiche storie del quartiere a luci rosse: Reeperbahn. E quella fu la nostra destinazione. E non ci fu difficile trovare Herbertstrasse, una strada pedonale sbarrata da un’alta barriera di legno, a cui si poteva accadere attraverso uno stretto pertugio, quella era la strada delle prostitute seminude in vetrina. L’avevo già vista in qualche film documentario di quei tempi. Dopo il successo di “Mondo Cane” c’era stata una proliferazione di documentari che avevano il solo obbiettivo di scioccare noi poveri provinciali. La mia espererienza con le prostitute si limitava ad averne intraviste alcune da lontano, quelle che si posizionavano all’inizio di via del Parione all’angolo con via Tornabuoni a Firenze.
Sentimmo fra i vari guardoni che passeggiavano su e giú per la strada due che parlavano italiano. Anche questi erano romani e laro destinazione era Stoccolma ed il loro obbiettivo era lo stesso: caccia alle vichinghe. Durante la nostra conversazione mi invitarono ad unirmi a loro, al mattino sarebbero partiti per Copenhagen e loro avevano la macchina, mi sembra fosse una FIAT 1100. Loro parlavano pochissimo l’inglese ed io sarei stato utile.
Fissammo un punto dove incontrarci ed non m’arcordo come feci ad andarci ma di certo ero là prima dell’ora convenuta, non volevo perdere un tale comodo passaggio. E mentre li aspettavo sentii un gran rumore di zoccoli e di ruote che sferragliavano sul selciato: era un gran carro tirato da due cavalloni carico di barili di birra che veniva avanti verso di me. Giá allora mi parve un’immagine d’un passato lontano.
I romani arrivarono puntuali e comodamente mi sedetti dietro, e quello fu l’inizio d’un lungo passaggio.
30 giugno 2011, Marblehead, MA USA
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