Per mantenere la cronologia della storia del mi’ babbo ho deciso di integrare due M’Arcordo… (16 e 50) e di ripubblicarli dopo un’attenta revisione.
L’anno scorso (2011) ci fu un gran parlare della Libia, ed in particolare verso la fine della guerra alla radio davano in continuazione notizie di grandi combattimenti a Misrāta, che poi sarebbe Misurata, come l’avrebbe chiamata il mi’ babbo e poi verso la fine si senti parlare anche di Sirte, ultima roccaforte di Geddafi.
Io in Libia non ci so’ mai stato, ma son cresciuto con questo nome in testa, il babbo aveva costruito un mito per me.
Nell’estate del 2007 ci sono arrivato vicino, all’oasi di Siwa, ufficialmente in Egitto, ma gli egiziani stessi chiamano quella parte del loro paese il Deserto della Libia. Ero vicino al confine, a pochi chilometri dalla mitica Giarrabub, quella del “Colonnello non voglio il pane, voglio il piombo per il mio moschetto…” Ho poi anche scoperto che Guido del Borgo e Fernando d’Anghiari erano stati a Siwa, prima di andare a combattere ad El Alamain per poi esser presi prigionieri, assieme al Topo de Lama.
Ne ho conosciuto gente che é stata in Libia, cominciando da reduci ch’erano andati alla guerra dell’ ’11 e poi quelli della Seconda Guerra Mondiale. Ne ho conosciuto altri che ci sono nati ed anche quelli che poi ci han vissuto, una specie di pieds-noirs italiani. Quando lavoravo all’Alitalia di Boston c’era un gruppo di “Tripolini” d’origine siciliana, venuti in America verso il 1960, e da tutti ne ho sentito tanto parlare e sempre con nostalgia, che certe volte m’è sembrato d’esserci stato per davvero. Luciano, uno dei miei capi all’Alitalia e poi mio amico era nato a Tripoli. Suo padre. Il dott. Tosini veterinaio e ferrarese, aveva conosciuto benissimo Italo Balbo. Un giorno spero d’andarci e fare in macchina da Tripoli a Bengasi, poi magari andare anche nel sud, nel Fezzan, ma penso che dovrò aspettare ancora un bel po’.
Ma fra tutte le storie quelle del mi’ babbo erano rimaste sempre le più belle, le più avventurose.
Lui era stato in Libia a combattere in una guerra di seconda categoria, una di quelle dimenticate. Lui, si fa per dire, aveva combattuto contro i ribelli del Gran Senusso nel 1924-25 ai tempi del governatore generale De Bono. Poi col crescere ho capito che quelli che lui continuava a chiamare ribelli in fondo combattevano per la propria libertà ed indipendenza, che differenza c’era fra le loro aspirazioni e quelle degli eroi delle nostre tre Guerre d’Indipendenza?
Nei libri questa guerra non compare quasi mai; è forse una nota di tre righe a fondo pagina e viene identificata come “Campagna della Riconquista della Libia”.
E proprio per questo un po’ di storia non fa male. Dopo la delusione della Tunisia, che se l’erano presa i francesi verso la fine dell’ottocento, i governanti italiani di quei tempi avavano il complesso d’essere rimasti gli ultimi a soddisfare le loro aspirazioni coloniali, non c’era rimasto quasi piú nulla da spartire in Africa. Allora misero gli occhi sulla Libia e nel 1911 con una di quelle ridicole storie che solo i politici son capaci d’inventere dichiarono guerra all’Impero Ottomano. Mussolini, allora socialista e direttore dell’ “Avanti” scrisse articoli di fuoco contro l’imperialismo ed il colonialismo italiano: mandavamo i nostri giovani a morire per un cassone di sabbia. Certo poi, e non molto tempo dopo, fece una bella camaleontica trasformazione! E pensare che allora nessuna sapeva che c’era il petrolio. La guerra fu un successo ed alla fine ci prendemmo non solo la Libia ma ci fu anche il contentino: dodici isole ottomanne lungo la costa dell’Anatolia ma dove ci stavano i greci, ovvero Rodi ed il Dodecanneso.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il governo italiano, alle prese con il fronte contro l’Austria, decise d’abbandonare la Libia, aveva bisogno di tutte le truppe disponibili per sostenere la guerra in casa. Avevano mantenuto solo Tripoli e Bengasi con sparute guarnigioni, mentre il resto era stato ripreso, con l’aiuto della Turchia e della Germania, dai “ribelli”, come li chiamavamo noi, ancora fedeli al Gran Senusso.
La campagna di riconquista iniziò nel 1922. L’obbiettivo era quello di raggiungere, lungo la costa mediterranea, Bengasi e poi verso sud per rioccupare il Fezzan. Pochi tempo prima che il babbo arrivasse le truppe italiane avevano ripreso Misurata, locata sulla costa mediterranea della Sirte. Era strategicamente importante, una testa di ponte da dove si organizzavano le operazioni per riconquistare ulteriori territori perduti.
E a questo punto arrivò anche il babbo a dare il suo contributo bellico: cappello alla boera come quello dei boy-scout, il casco coloniale arrivò solo verso la fine, fascie mollettiere e Carcano 91 lungo, poi arrivò quello corto, il moschetto.
Io conoscevo le storie del babbo benissimo, a memoria e non era mai stanco di risentirle. Tutto era cosi chiaro nella mia mente che mi sembrava che ci fossi stato anch’io. In sua assenza l’avrei potutata narrare, ma non sarebbe stata la stessa cosa. ‘l mi’ babbo aveva il vantaggio di poterla arricchire ogni volta con qualche nuovo piccolo dettaglio, senza cambiarne il contenuto. Il fatto che in due anni sparó solo un colpo di moschetto di notte a casaccio nel buio non ebbe mai nessuna variazioni, ed allora quando ero piccolo non mi disse mai d’aver assistito a diverse impiccagioni. Questo lo appresi solo molti anni più tardi, quando ero grande, e quasi per caso. Non ne voleva parlare e mai si dilungò dettagli.
Mi piaceva la storia della nonna Vittoria, la su’ mamma, per prepararlo alle durezze del servizio militare, non gli aveva messo ‘l prete con lo scaldino nel letto per diversi inverni, lui si doveva abituare!
“Che beffa!” diceva ‘l babbo “Ho sofferto tanto freddo per poi finire dove si moriva dal caldo.”
Furono in molti quelli del Borgo, tutta la leva del 1904, che partirono col trenino per andare ad Arezzo e per poi finire in Libia. All’inizio del 1924 ci furono delle elezioni, forse comunali, non so, e a Sansepocro i socialisti vinsero, nonostante Mussolini fosse già stato al potere da più d’un anno. Vorrei proprio sapere se questo dettaglio sia vero. Così per punizione assieme ai sui coetanei, lui, che era già inscritto al partito fascista, si ritrovó in una nave con destinazione Tripoli. Molti di loro, come ‘l mi’ babbo, non avevano mai visto il mare. Appena sbarcati a Tripoli, i Borghesi assieme ad altri conscritti di città rosse furuno messi in fila lungo il molo ed un ufficiale cominció a berciare e ad isultarli, chiamandoli sovversivi e bolscevici e promettendo loro gavettate piene di sabbia.
Il mi babbo, dopo un breve periodo a Tripoli, fece “carriera”, dopo tutto lui aveva fatto le scuole tecniche, e per quei tempi era quasi una gran cosa. In poco tempo divenne caporal maggiore e fu spedito a Misurata Marina e dal nome si capisce che era vicina al mare. Fu messo nella seconda compagnia Cacciatori d’Africa, un corpo di fanteria ch’era addestrato a combattere nel deserto. In quelle strane vicissitudine belliche era successo che avevano acquisito un gran numero di cavalli catturandoli ai “ribelli”; cosi i fantaccini si trasformarono in cavalieri e fu allora che diedoro loro Carcano corto, piú facile da usare se in sella.
“Ma senza sciabola, solo la baionetta ed era fissa!.” Avrebbe aggiunto il babbo.
Uno dei suoi commilitoni del Borgo, che aveva dato un calcio ad un arabo che si era chinato per terra per la preghiera, fu punito e mandato con una carovana nel Fezzan, il deserto nel sud, a lá morì, ma non m’arcordo il nome.
“Non si danno i calci agli arabi che pregano.” Diceva ‘l babbo “Porta male.”
Fu messo in furieria e teneva l’amministrazione, responsabile dei rifornimenti e dei magazzini: tranquillo lavoro d’ufficio nella maggioranza dei casi, almeno in questa prima parte del suo servizio, e non gli mancava niente. Mi affascinava l’idea che lui era quello che ingaggiava i cammellieri per il trasporto delle salmerie. Volevo credere che ‘l mio babbo fosse un grande esperto di cammelli.
‘l babbo stava in ufficio con i suoi libroni e faceva finta d’esser un ragioniere. Il suo capitano era Salvatore Castagna di Caltagirone, quello che divenne l’eroe di Giarrabub. Il babbo ne parlava con gran rispetto, era severo, giusto e niente gavettate di sabbia. Le truppe combattenti. quelli che andavano in prima linea, guidate da sergenti (e qui ci sarebbe la storia di Piscupello, ma la lascio per un altra volta, forse ci scrivo un’appendice) italiani, erano gli Ascari, truppe di colore, quasi tutti eritrei cristiani contenti di combattere contro i mussulmani infedeli e d’esser anche pagati per far questo. Non era del tutto solo, con lui a Misurata Marina c’era anche un altro Borghese, il Comanducci del Petreto, il podere fra il cimitero e la Madonnina del Latte, quella che oggi é la villa del Boninsegni. Era conosciuto con il soprannome Pagnjino (voi Borghesi sapete come pronunciarlo). Non m’arcordo come si chiamasse di nome.
Fu anche allora che il babbo scoprì tutta la gloria dell’antica Roma. Lui che non aveva ancora visto il Colosseo, andava a cavallo a visitare Leptis Magna. Le rovine di questa magnifica città romana, nel contesto delle credenze e propaganda di quei tempi, confermavano la missione delle nostre truppe di riprenderci quello che era stato sempre nostro: quella era la quarta sponda.
Nei caldi pomeriggi africani spesso cavalcava lungo la spiaggia sabbiosa vicino al mare. E pensare che fino a pochi mesi prima aveva visto solo l’Afra ed il Tevere. Ancora non aveva imparato a nuotare, sapeva solo fare il morto e galleggiava, rimanendo vicinissimo alla riva. Fu proprio in uno di questi pomeriggi che rientrando in caserma cominció a sentir un gran freddo. Poi cominciarono i brividi, quando si sdraió sulla sua branda bubbolava. Lo portarono subito all’infermeria e poi all’ospedale. Venne il medico: aveva preso il tifo. Ce n’erano giá stati molti casi e alcuni erano morti. In poche ore la febbre divenne altissima e delirava. Il babbo mi raccontava che si era convinto che sarebbe morto, sperduto e senza gloria, lontano dai suoi e dal Borgo. Non si era mai dimenticato il nome del suo dottore, il Dott. Trepiccioni, responsabile di quell’ospedale. Ma come si fa a dimenticare un tale nome? Mi sembrava così buffo. La febbre continuava ad essere altissima ed il medico decise che doveva fargli un bagno col ghiaccio per abbassargli la temperatura. Questa parte della storia mi faceva venire i brividi, giustamente. Ma poi il bagno non lo fece, ebbe un’emorragia e lo diedero per morto, e gli tirarono su il lenzuolo sopra la testa. E lui era tanto debole che non poteva parlare o muoversi. Quando riprese coscienza cominció a temere che l’avrebbero sepolto vivo. Vennero degli infermieri per portarlo via e fu proprio uno di questi che si accorse che aveva battuto un ciglio e gridó:
“Ma questo é vivo!” e così ‘l babbo si salvó, pensavo io. A questo punto della storia io ero tutto contento che non era morto, altrimenti io non ci sarei stato. Passarono giorni e lentamente si riprese, aveva solo vent’anni ed aveva l’energia per guarire. ‘l Pagnjino, suo vicino de casa, anche se quando erano stati al Borgo non s’erano frequentati, andava sempre a trovarlo. ‘l babbo aggiungeva che era un tipo silezioso, si sedeva accanto al letto e stava zitto. Alla fine fu dimesso e fu deciso di rimandarlo in Italia in convalescanza, era ancora debole ed aveva perduto molto peso.
Il giorno prima di partire ‘l Pagnjino andó a trovarlo:
“Renato domani parti, s’artorni al Borgo dopo l’ospedale, vai a salutare i miei e digli che sto bene.”
“Certo, certo, li vado subito a trovare.”
“Stasera se va a cena al ristorante.”
A Misurata c’era solo un buon ristorante dove ci andavano gli ufficiali.
“Al ristorante?” domandó sorpreso ‘l babbo “Ma ci vogliono tanti soldi!”
“I soldi ce l’ho io, ‘n te preoccupere. Prima se mangia e poi te l’arconto come l’ho fatti.”
E cosi andarono a cena e mangiarono e bevvero benissimo e poi venne la storia di come aveva fatto quei soldi.
“Alora, quando stavi tanto mele, tutti dicevano che saresti morto e me dispiaceva dimolto. Me dispiaceva anche, l’hai visto ‘l cimitero? che se uno more miquì fanno ‘na buca ‘n terra e ce lo buttono d’entro, senza neanche la cassa. Alora ho deciso de fare ‘na tomba per te. Ho trovato ‘n po’ de matoni e de pietre e ho preparato un tombino. Poi in magazzino ho fregato un po’ d’assi e ho fatto ‘na cassa da morto. E poi, per fortuna, te ‘n si morto e io so’ armasto con ‘na cassa e un tombino voto. meglio cosi!”
Cerco d’immaginare la faccia del mi’ babbo quando sentiva ‘sta storia, e ‘n’era manco finita.
“Poi è morto ‘n sottotenente, anche lui aveva preso ‘l tifo. C’era ‘n capitano furioso per come seppelivano i morti, io me so’ presentato e gli ho detto che c’ivo ‘na tomba e ‘na cassa da morto ch’ivo fatto pe’ ‘n amico, che ‘n’era più morto e che gliela davo. E lui grato pel mi’ gesto, m’ha voluto dere cento lire. Io prima ‘n li volevo, ma poi l’ho presi. Ho pensato che qu’i soldi ‘n erano manco i mii, ma i tui. Ma ‘n teli potevo mica dere, e ch’era meglio mangiasseli e belli, magari al ristorante.”
Spesso quando si incontrava ‘l Pagnjino per la via il babbo diceva ‘na battuta:
“Ecco il mi’ becchino!” oppure “Noi se mangiato coi soldi de la mi’ cassa da morto!”
Ed io sapevo che era vero: era proprio lui quello che aveva fatto ‘na cassa da morto pel mi’ babbo e ridacchiavo.
Il babbo tornò in Italia e sperava di armanerci, ma dopo la convalescenza lo rimandarono in Libia.
Ritornò a Misurata Marina, alla sua scrivania, e nella primavera del 1925, credo, fatti i dovuti preparativi per la spedizione, una colonna di truppe italiane si mosse da Misurata ed il primo obbiettivo era di riprendere Sirte (il babbo nella foto ha scritto Sirt, ma quando mi raccontava le storie era sempre Sirte).
In tutto ho quattro foto di questa spedizione e di certo la qualità non é buona. In questa c’è anche il babbo, il quarto da sinistra, quello col cappello grande, ancora con la “boera”, i caschi di sughero non erano ancora arrivati. Riconosco il babbo, solo perchè lui me lo indicava. Si può notare che alcuni ufficiali hanno ancora il cappello a kepi tipico della Prima Guerra Mondiale. Ci sono anche le truppe coloniali Spahis, cavalleria indigena, con il fez in testa, non si vedono gli Ascari, normalmante appiedati, ma dalle storie sentite so che c’erano anche loro ed erano proprio loro quelli che andavano sempre avanti per primi, o forse sarebbe meglio dire: venivano mandati avanti per primi.
Finalmente arrivarano a Sirte e trovarono la città deserta, anche se allora credo fosso solo un paesone. Era stata abbandonata, eran fuggiti tutti, forse anche il babbo e la mamma di Gheddafi allora bambini. Cominciarono un rastrellamento casa per casa, temevano improvvisi attacchi a sorpresa. Fu proprio il babbo, cosi raccontava, che alla fine trovò una donna vecchia e sdentata, che forse era anche muta e demente. Insomma non ci fu nessuna eroica battaglia a coronare la conquista da parte delle nostre gloriose truppe coloniali. Dopo pochi giorni la gente che era fuggita cominciò a rientrare.
Dopo la spedizione non credo che ci furono grandi eventi fino al giorno del congedo.
Ma, e forse fu solo per un breve tempo, contemplò l’idea di rimanere. Infatti aveva conosciuto a Misurata un funzionario di banca e questo gli aveva proposto un lavoro, e la promessa d’una rapida e sicura carriera.
Il babbo decise di tornare a Sansepolcro, li c’era la Buitoni che l’aspettava e lui era un impiegato.
In casa di cimeli della Libia ce ne son ben pochi. C’é una storia, ma chissá se anche
questa sarà vera, che quando il babbo ritornò, allora abitavano alla Fonte Secca, all’inizio di via del Petreto, la nonna Vittoria lo fermò sull’uscio e neanche lo abbracciò, lo fece spogliare prima d’entrare in casa e fu spedito subito a farsi un bagno nella tinozza con l’acqua bollentissima e la divisa e tutti i suoi panni furono bruciata nel cortile, incluso il casco coloniale. Lei non voleva pidocchi e piattole africane in casa. Peccato, quello mi manca nella mia collezione di cappelli, mi debbo consolare con la fotografia! Ho solo un frustino da cavallerizzo, una sacchetta di pelle per il tabacco ed un bocchino d’avorio e, sempre di quel periodo, una macchina fotografica col soffietto. C’era anche una piccola collezione di cartoline francesi erotiche, si fa per dire, di ragazze arabe seminude, che il babbo teneva nascoste nel cassetto del comodino. Ci doveva essere un bel traffico di queste immagini di bellezze esotiche che forse venivano dalla Tunisia. Quando i miei s’accorsero che io le avevo scoperte e le studiavo attentamente con tanta curiositá, forse avevo cinque o sei anni, le fecero sparire. Peccato, credo che oggi varrebbero nel mercato dell’antiquariato. Ne son sopravvisute due o tre di quelle castigate.
Alcuni anni fa Pascale mi volle fare un ritratto e mi chiese quale cappello mi volevo mettere per la posa ed io col mito della Libia in testa non ebbi un momento di dubbio, volevo essere come il babbo. Volli che aggiungesse nello sfondo una delle porte di Leptis Magna e la Venere di Cirene, di cui sono innamorato da quando avevo 10 anni, anche se senza testa e senza braccia, certo Freud ci avrebbe qualcosa da dire.

Renato Braganti, 2nda Compagnia Cacciatori d’Africa e Fausto Braganti che fa finta d’essere importante
Appendice
1) Agli inizi degli anni trenta ‘l babbo fu richiamato in servizio per fare le Grandi Manovre. Queste si svolsero nell’Appennino marchigiano dall’altra parte di Monte Nerone. Il babbo si fece male ad un piede e lo portarono in ospedale ed il medico militare severessimo, che rimandava in linea tutti quanti, si chiamava Dott. Trepiccioni. Il babbo lo riconobbe, si misero a parlare della Libia, di Misurata Marina ed il dottore si raddolcì … e lo rimandò a casa.
2) Ho raccontato la storia dell’altoatesino Weingarten nel 49 M’Arcordo…Guess who came for dinner? https://biturgus.wordpress.com/2009/03/14/49-m’arcordo-libico-americano-guess-who-came-to-dinner-indovina-chi-e-venuto-a-cena/
L’anno scorso Luciano mi ha inviato una foto d’un ballo alla Nunziatella con il giovane Rudi che danza. (1958?)
19 giugno 2012 Marblehead, MA USA
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