Dopo la divagazione americana, ne parlerò ancora verso la fine di questo M’Arcordone… ritorno a Sansepolcro e la Buitoni rimane sempre il filo conduttore per raccontare anche la storia dei miei, con cui per tant’anni hanno vissuto in simbiosi. Ho inoltre integrato in questo buona parte del mio 012 Non m’arcordo…quando sono nato…
Molti furono i reduci che ritornarano a casa dopo la campagna d’Abissinia (1936-’37), ma nell’aria si sentiva aria di guerra; si temeva che questa sarebbe stata vicina e non lontana in sperdute ambe africane. A Sansepolcro, come immagino fu nel resto dell’Italia, per un po’ sembrò che la vita continuasse come prima, ma fu una tregua che non durò per molto.
Nella primavera del ’39 le truppe italiane sbarcarono a Valona e a Durazzo e cominciò l’invasione dell’Albania e dopo non molto Vittorio Emanuele III re d’Italia, si ritrovò in testa un’altra corona, quello di re d’Albania, si vede che non gli bastava quella d’imperatore d’Etiopia, ma in fondo non era stato lui a decidere.
Diciamo che questa “piccola” guerra fu una prova generale.
La catastrofe cominciò (1 settembre 1939) con l’invasione della Polonia da parte dei tedeschi nazistie poi dei russi sovietici. Dopo la spartizione della Polonia, una strana tregua si era stabilita, C’era stata una formale dichiarazione di guerra: da parte della Francia e dell’Inghilterra contro la Germania. I francesi la chiamarono “la drôle de guerre“, e gli inglesi “the phoney war” ovvero la guerra buffa, la guerra per finta. Non successe niente per tutto il ’39 a per la prima parte del ’40: gli eserciti delle nazioni belligeranti rimasero fermi nelle loro posizioni, a guardarsi con la baionetta in canna.
Nello stesso tempo il ‘mi babbo vide che le cose stavano cambiando: il numero degli operai del primo turno, quello delle cinque del mattino, che silenziosi si convogliavano verso l’ingresso della Buitoni, quando era ancora buio, cominciarono a diminuire. Si feceva sempre piú frequente la frase piena di tristezza e d’apprensione di quelli che annunciavono:
“Sor Braganti, domani non vengo, ho ricevuto la cartolina, vado ad Arezzo, mi devo presentare al distretto.” E all’alba partivano, col primo trenino, l’Appenino.
Come ho detto il babbo era un semplice impiegato della direzione tecnica. Nella gestione della Buitoni di tipo paternalistico, ancora di stile ottocentesco e dove di certo non sapevano cosa fosse un organigramma, la descrizione d’una posizione e tanto meno un budget, le varie manzioni e respensobilità venivano delegate a secondo del momento e delle necessità. Tutto era deciso del “padrone”, in questo caso il Sor Marco, e le piú grandi decisioni dalla famiglia, ovvero dai cinque fratelli. Il babbo si era dimostrato capace nella manotenzione non solo dei varii macchinari, del flusso della produzione, ma sopratutto nella gestione delle maestranze, nell’organizzare i turni e nell’utilizzare il personale in una maniera efficente. Mi è stato ripetuto piú d’una volta da vecchi operai/e che il mio babbo era giusto, buono e sapeva farsi rispettare.
Ogni mattina, fra le otto e le nove, il Sor Marco, che ancora abitava in un appartamento nell’edificio a sinistra entrando nello stablimento, traversava il cortile e si presentava nell’ufficio del babbo ed assieme iniziavano il rituale giro dei vari reparti dello stablimento. E lui non si interessava solo della manotenzione e produzione ma anche degli operai, della loro vita privata e dei loro bisogni. Era stato lui che aveva voluto l’asilo nido, per i bambini appena nati delle operaie che potevano in tal modo allattare i bambini senza lasciare lo stablimento.
Era il babbo che lo informava di tutto quello che stava succedendo, era lui che sapeva cosa dire e quello da non dire, non era uno spione. E per questo era rispettato anche dal Sor Marco. Col tempo aveva consolidato questa sua autorità, anche se non sanzionata mai con qualche titolo ufficiale specifico. Il Sor Marco nella gestione delle maestranze dello stablimento ascoltava ed agiva in buona parte secondo quello che il babbo suggeriva. E proprio per questa ragione il babbo si trovò a dover gestire forse la piú pesante responsabiltà di tutta la sua vita.
Allo scoppio della guerra lui stesso fu subito esonerato dal servizio militare, era indispensabile alla Buitoni, elemento chiave, responsabile d’un’importante “produzione bellica”. Per poter mandare avanti la fabbrica non poteva fare a meno di certi operai specializzati, meccanici, elettricisti ecc. Fu così che in varie occasioni fu proprio lui a prendere la decisione di chi scegliere. Era lui che indicava al Sor Marco quello/i di cui non poteva fare a meno, gli indispensabili, e per questi inviava la richiesta d’esenzione dal servizio militare, che immancabilmente veniva approvata. Fu così ci furono quelli che rimasero a lavorare mentre altri finirono nelle steppe della Russia o nel deserto della Libia.
Questo fu un peso che il babbo si trascinò dietro per tutta la vita, era stato lui che aveva avuto il potere di vita o di morte, e di questo ne parlava ben poco.
Fra quelli di Sansepolcro che partirono ci fu Elio Biagioli, ma lui non lavorava alla Buitoni. I suoi appunti fittemente annotati in quaderni furono poi presentati ai “Diari” di Pieve Santo Stefano e mi sembra che vinse uno dei primi premi. “La Schiena Rotta”, le sue note, semplici da autodidatta, ci raccontano la guerra d’Albania e poi di Grecia viste da un Borghese, e penso che siano ancora validissime da leggere. Il mio amico Giorgio, nipote di Elio, me ne portò subito una copia. Una sua riflessione mi rimase impressa:
“Ma che ci siam venuti a fare? Questi son piú poveri di noi.”
Il 10 giugno 1940, con gli altoparlanti messi in piazza, Mussolini annunciò la dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra e pensare che poco piú di vent’anni prima eravamo stati alleati ed assieme avevamo celebrato la vittoria della guerra che avrbbe posto fine a tutte le guerre, ed ora uno dei nuovi motti era:
“Dio stramaledica gli inglesi!”
E proprio in quei giorni ci fu un grandissimo evento di vitale importanza, di portata storica
per quanto mi riguarda: i miei genitori fecero all’amore. Dopo quasi quattro anni di matrimonio, dopo visite ginecologiche ad Arezzo e a Firenze, la mi’ mamma finalmente rimase incinta, e pensare che quando s’erano sposati cosi in fretta alle sei di mattina d’un lunedi d’ottobre, erano stati in molti a pettegolare che quello di certo doveva esser un matrimonio riparatore.
Questa è la foto della mamma incinta (12 sett. 1940, come scritto nel dietro), orgogliosamente si è messa di profilo per far veder il pancino, ma non riesco a riconoscere chi siano le due amiche e neanche il luogo. É incinta anche quella sulla destra?
Non m’arcordo quando so’ nato; ma me l’hanno arcontato tante di quelle volte che mi sembra che c’ero anch’io.
Sono nato verso l’una di notte del 16 marzo 1941. L’Italia era giá in guerra da 9 mesi, ma al Borgo ancora non si sentiva troppo, a parte tutti quelli che eran partiti e le famiglie che trepidavano per loro. Però c’era l’oscuramento, anche se gli aerei nemici non erano ancora comparsi nei nostri cieli: così son nato al buio, come me diceva il mi’ babbo. Sono nato in casa, come era di moda a quei tempi, con il provvidenziale aiuto della Rosina levatrice. A quei tempi si nasceva quasi sempre nel letto matrimoniale, dove i genitori ti avevano concepito e dove spesso poi sarebbero morti, come nel caso del mi’ babbo. Finalmente quel letto monumentale, che, come ho già raccontato, i miei nonni paterni avevano regalato al mi’ babbo, al suo ritorno dalla Libia nel 1925, mi vide nascere.
Son nato in Via Roma 1, ovvero nel Palazzo delle Laudi, credo d’esser l’ultimo nato in Comune, e per l’esattezza, in quello che credo oggi sia l’ufficio del segretario comunale, nella stessa camera dove era morto uno degli ultimi Francesci Marini. Arduino Brizzi, ancora adolescente, che allora viveva in Via Buia dove dava la finestra della nostra cucina, spesso mi raccontava che presto al mattino aveva appreso della mia nascita. Come ho già detto a quel tempo il palazzo era ancora proprietá privata di Serse Bartolomei, di cui il mi’ nonno Barbino (Luigi Braganti) era il fattore. Il Sor Serse e sua moglie, la Signora Sofia (era una Buitoni, figlia del Sor Gherardo) non stavano molto nel palazzo. Passavano gran parte del tempo nella villa di San Martino, oltre Gragnano o nella casa di Firenze. La signora Sofia odiava lo scampanio del duomo presto al mattino. Mia madre mi raccontava che si metteva dei tappi di cera nelle orecchie, e che una volta han dovuto chiamare il medico per toglierli, s’erano strutti. Nel palazzo abitava anche la mamma di Serse, l’anziana Sora Carolina, piccola piccola. A lei le campane non davano fastidio, forse era sorda? La sora Carolina aveva avuto due gemelli maschi di primo parto e questo, secondo certe credenze, le aveva dato poteri taumaturgici.
“Cavava le malie!”
Come affermava mia madre e la sua specialitá era quella guarire i sofferenti di sciatica, facendo degli scongiuri e saltando sulla schiena con l’aiuto d’una scopa, del malato che aveva fatto stendere per terra. Poi mia madre aggiungeva che il sabato mattina, giorno di mercato, la cucina sembrava un ambulatorio, tanti contadini chiedevano di vedere la Sora Carolina, lei avrebbe trovato una soluzione ai loro problemi. Lei era una signora, la padrona, e non si faceva pagare, ma le regalie erano tante, uova e polli in abbondanza.
La mi’ mamma inoltre mi raccontò che quando era incinta passava molto tempo con lei. Un giorno chiese a mia madre di spogliarsi, quando lei rimase con le mutandine e il reggiseno lei le disse in modo imperiose:
“T’ho detto nuda, cavati tutto!”
E lei se li tolse e si sentì molto imbarazzata. Dopo averla fatta camminare su e giú diverse volte ed una attenta analisi della forma del ventre, da tutti i punti di vista, sentenziò con sicurezza che sarebbe nato un maschio. Questa volta ci azzeccò, in fondo aveva il 50 per cento di probabilità d’aver ragione.
Poi nel palazzo c’erano la Cesira, la cuoca e suo marito Riccardo che era l’uomo tutto fare. C’era una gran caldaia a carbone e Riccardo faceva anche il fuochista. Questa era una delle pochissime case del Borgo con l’acqua calda. Questo era stao un gran salto di qualitá per mia madre; lei veniva da Via San Puccio, da una casa senz’acqua corrente, si doveva andare a prenderla con la brocca all’angolo del Crudo marmista (Via Santa Caterina).
A mia madre la casa non piaceva, a parte l’acqua calda, era troppo grande ed era fredda, gli alti soffitti rendevano il riscaldamento inefficiente. Così diceva, ma forse la vera ragione era un’altra: vivere con la suocera. La nonna Vittoria non era una donna semplice e lei si metteva il cappello. Come ho già detto era una Laurenzi e veniva dal Monte Santa Maria. La famiglia una volta stava bene, possidenti e con pretese di signorotti di campagna. Lei era stata a scuola e ci teneva a dire che lei leggeva La Nazione tutti i giorni. Suo padre, il mio bisnonno Valentino, era stato bersagliere e con Cialdini aveva combattuto nella battaglia di Castefidardo e con Vittorio Emanuele era andato incontro a Garibaldi fino a Teano. Era poi rimasto nell’esercito ed aveva partecipato alla campagna di repressione del “Brigantaggio Meridionale”. Fu ferito ad una coscia durante la Terza Guerra d’Indipendenza. Essendo reduce di sei anni di guerre patrie ed invalido, a parte la pensione, gli avevano concesso l’appalto di sale e tabacchi al Monte. Credo che non lo tenne per molto, in fondo si sentiva troppo signore per fare il bottegaio. Campò fino a 91 anni, gli morirono quattro mogli, la quinta donna si rifiutò di sposarlo, portava male, e si mangiò tutto quello che era rimasto. Volevo solo dire che la nonna Vittoria aveva pretese da gran signora, ed il fatto che abitava, anche se non era il suo, in un palazzo al centro del Borgo, aumentava la sua arroganza. Per lei mio padre non si era sposato alla sua altezza, la mi’ mamma era un’operaia della Buitoni, veniva da Via San Puccio, almeno fosse stata una maestra come la zia Tecla, la moglie di Angelo, il fratello grande del babbo. In poche parole credo la disprezzasse. Solo alla fine, quando malata, scoprì che mia mamma era attenta e buona e che le fu vicina fino alla fine e per questo le fu grata: lasciò a lei gli orecchini d’oro e corallo ed altri gioielli e le chiese tante volte di perdonarla.
La gravidanza non diede grandi propblemi alla mamma, aveva 26 anni.
Il prodotto che aveva portato la Buitoni al successo incontrastato era stata la Pastina Glutinata, ne aveva il marchio, non credo che altri pastifici potessero usare il termine “glutinata”. Fra i vari manifesti pubblicitari disegnati da Seneca c’è anche quello del bambino “glutinato” e i miei speravano tanto che venissi come lui: un’esplosine di salute sorridente. Di certo il babbo non mi avrebbe fatto mancare la pastina, anche in tempo di guerra, almeno così sperava.
Ma ritorniamo a quella notte, fra il 15 e il 16 marzo 1941. Il parto fu semplice e mamma e bambino stavano bene, così confermò ls Rosina levatrice, sculacciandomi.
Ma c’era ancora un problema non risolto: il nome! Se fosse nata una bambina i miei genitori erano d’accordo: sarei stata Laura, niente male, mi sarebbe piaciuto essere Laura. E se fosse nato un maschio? Il mi’ babbo aveva in mente nomi patriottici che mi avrebbero poi perseguitato per tutta la vita e la mamma mi difese. Immaginate esser chiamato Isonzo, che fa anche rima con stronzo! Così i due si trovarono in una posizione di stallo.
Quella mattina, anche se era domenica, dopo il lieto evento, come al solito alle 4:30 il mi’ babbo uscì dal gran portone sotto le loggie e si incamminò verso lo stablimento camminando nel buio più completo, era già cominciato l’oscuramento; lui conosceva quella strada a memoria. Sicuramente era tutto contento e fiero: era diventato babbo d’un maschio! Nell’oscuritá sentiva i passi d’altra gente che si incamminava verso la Buitoni, e qualcuno gli chiese:
“Sor Braganti, è lei?”
“Si, so’ io!”
“Alora, è nato?” tutti al Borgo sapevano che la mi’ mamma stava per partorire.
“Si è nato proprio ‘sta notte, è un maschio!”
“Congratulazioni!”
Mio padre si era avvicinato e più dalla voce che dalla fisionomia aveva riconosciuto che l’interlocutrice era la signora Fausta Menci che come lui andava al lavoro.
“Fausta…Fausto?” pensò mio padre “Mi piace, Fausto mi piace!” e cosi ritornò nei suoi passi. Salì le scale di corsa e quando in camera chiese a mia madre:
“Ti piacerebbe il nome Fausto?”
“Si, Fausto mi piace!”
E cosi divenni Fausto. Per fortuna che il mi’ babbo non incontrò una signora di nome Ermengarda od Adalgisa!
Nel gran palazzo penso che l’arrivo d’un bambino portò una nua nuova vita, la nonna Vittoria stava sempre peggio con la sua pericardite.

Mi portano in campagna. Il babbo porta il lutto per la morte della madre (gen 1942) ed il distintivo all’occhiello e’ quello del PNF.
In giro per casa c’erano sempre ragazzette, in genere figlie di contadini, che venivano a dare una mano. Fino a non molto tempo fa quando incontravo la Luigina per il Borgo, spesso mi sentivo dire: “io t’ ho pulito il culo”. E lo annucciava ad alta voce, con fierezza. La settimana scorsa ho incontrato una signora di 81 anni e la prima cosa che mi ha detto:
“Io t’ho cambiato il pannolino.” Non solo lei è stata molto piú discreta della Luigina, ma ha anche usato un termine che nel ’41 non esisteva, avrebbe dovuto dire “la ludra”. (come mi ha ricordato Loris)
“La mi’ mamma mi lasciava al portone del palazzo, prima delle 5 al mattino, lei andava a lavorare. Ed io addormentata salivo la grande scalinata, avevo paura, fino al secondo piano. Allora avevo dieci anni.”
La nonna mori ai primi di gennaio del ’42, aveva 67 anni, ed il catafalco con bara fu allestito nel gran salone, quello dove oggi si riunisce il consiglio comunale, sopra quel monumentale tavolo da biliardo. Ma che fine avrà fatto?
Il babbo lavorava sette giorni alla settimana. Cominciava col il turno delle 5:00 del mattino per tornare a casa per pranzo verso le 13:00. Faceva poi un riposino seduto su una poltrona per poi tornare allo stablimeto verso le 3:00 per due o tre ore. Spesso dopo cena ritornava per vedere che tutto procedesse bene quando cominciava il terzo turno, quello delle 21:00, e poi subito a letto.
E questa routine durò per quattro anni, sempre meglio della steppa russa o del deserto della Libia.
13 dicembre 2012, Marblehead, MA USA
ftbraganti@verizon.net
Facebook: Fausto Braganti
Skype: Biturgus (de rado)
dicembre 17, 2012 alle 12:49 PM |
Caro Fausto,
come per gli altri precedenti ho letto con molto piacere questo tuo ultimo m’arcordo. Devo riconoscere che hai una mole di ricordi veramente notevole che condisci con i tuoi consueti, arguti commenti, doti veramente non comuni. Su questo tuo ultimo m’arcordo che, parlando della tua nascita, fornisce sensazioni più piacevoli e leggere rispetto, per esempio, a quello precedente, come quel bel ciuffettino che ha in cima alla testa nella fotografia in cui tua madre ti tiene in collo, posso dirti che ti è andata bene che ‘l tu babbo non abbia incontrato una che si chiamasse Sofonisba perché l’adattamento al maschile non sarebbe stato uno scherzo!
Anche la differenza fra pannolino e ludra non è da tutti!
Effettivamenti i tuoi ricordi permettono anche agli altri di accedere ai propri e di relazionarli con quelli, quindi è sempre un piacere riceverli e confrontarli.
Se prima di Natale non dovessi produrre altri m’arcordo colgo l’occasione per farti i migliori Auguri di Buone Feste a te ed ai tuoi-
Ciao e un abbraccio
Giovanni