… e non solo, si scrivevano anche le cartoline ed io ne ho scritte tante. Dopo un inizio un po’ lento e titubante, divenni un vero grafomane.
Per ovvie ragioni non ho quelle che ho scritto, chissà dove sono andate a finire. Con un po’ di presunzione vorrei sperare che qualcuno o meglio qualcuna le abbia conservate. Ho ritrovate tutte quelle che scrissi alla mi’ mamma, inviate durante le mie peregrinazioni fino al 1987, l’anno in cui morì.
Purtroppo le lettere che il mi’ babbo scrisse quando era in Libia nel 1924-25 che mia nonna aveva religiosamente conservato andarono perdute durante gli affrettati traslochi del tempo di guerra, 1944. Si è salvata solo una cartolina di Misurata, quella che scrisse il giorno che si ammalò di tifo, almeno questo era quello che lui raccontava.
Quando partii per Londra nel settembre del 1968 nella mia casa a Sansepolcro il tempo si fermò. Per quasi vent’anni mia madre non toccò nulla delle mie cose, voleva che tutto rimanesse al proprio posto per quando ritornavo. Dopo la sua morte tutto finì nelle scatole, e quelle piene di lettere e cartoline erano molte. Sapevo che c’erano ma non le avevo mai aperte fino all’estate passata, quando, dopo il trasloco Tuchan in Francia, ho decise di mettere un po’ d’ordine, si fa per dire.
Parlando con l’amico Mark di questo mio progetto questi mi ammonì:
“Attento Fausto, è pericoloso rileggere vecchie lettere, ci sono fantasmi nascosti, possono sortire.”
Non gli ho dato retta, poi vedremo.
Una volta si scrivevano le lettere. Nel dopoguerra, in un tempo con ancora pochissimi telefoni, era la quasi unica maniera di comunicare, ma lo poteva fare solo chi sapeva leggere e scrivere e per i più poveri anche un francobollo era un lusso. Avevo sentito dire che nelle grandi città una volta c’erano gli scrivani di piazza per aiutare gli analfabeti, ma io quelli non li ho mai visti, solo Totò in “Miseria e Nobiltà”.
C’era la temuta “cartolina” quella della chiamata alle armi, quella la ricevevano tutti i giovani baldi, anche quelli analfabeti sperduti nelle montagne. Gli stessi che un tempo non avevano diritto di voto, ma che poi non scampavano alla leva, un bel regalo napoleonico.
Nei momenti di estremo bisogno si potevano inviare telegrammi, ma quello era un sistema carissimo, si contavano le parole e c’era il fattorino che arrivava di corsa in bicicletta a portare quei foglietti gialli ripiegati, si doveva firmare in un libretto la ricevuta consegna. In genere la gente si impauriva, molto spesso i telegrammi erano portatori di cattive novelle, qualcuno era morto. C’era anche la tradizione di mandare telegrammi d’auguri per i matrimoni, si misurava l’importanza d’un matrimonio dal numero dei telegrammi ricevuti. Quando si entrava nell’ufficio postale di Sansepolcro si sentiva il ticchettio dell’alfabeto Morse, sulla destra c’era il piccolo ufficio del telegrafo.
Inaspettato una mattina di quel memorabile settembre del 1968 arrivò il fattorino in bicicletta e mi consegnò un telegramma. Non era morto nessuno, mi si chiedeva di andare a Londra ad insegnare l’italiano: accettai l’offerta e due giorni dopo feci la valigia. Quello fu l’inizio d’un lungo viaggio e scrissi tante lettere.
I miei genitori partirono per Roma la stessa mattina del loro matrimonio, ottobre 1937. Arrivati all’hotel il mi’ babbo trovò il tempo di scrivere una lettera ai propri genitori per dir loro che il viaggio era andato bene e che si “divertivano moltissimo”, queste parole mi fanno sorridere. Non so se mia madre ne scrisse una ai suoi, quella non l’ho ritrovata. (Via Roma 1 era l’indirizzo del Palazzo delle Laudi)
Penso d’aver scritto la mia prima, poco prima di Natale, in seconda elementare sotto l’attento sguardo della maestra Selvi. Era indirizzata a Gesù Bambino e promettevo che sarei stato bravo e buono. Scrissi poi altre lettere, sotto l’assillante spinta del babbo, agli zii che stavano a Gubbio. Odiavo farlo, era come fare i compiti. La zia Tecla le leggeva, le correggeva e me le rimandava indietro sottolineando gli errori con quella terribile matita rossa e blu, dopo tutto lei era una maestra.
Nell’estate nel 1955 il mi’ babbo mi portò a Roma in uno dei suoi viaggi di lavoro. Ero felicissimo, volevo che tutto il mondo lo sapesse. Durante le vacanze a Miramare avevo fatto amicizia con un ragazzo tedesco che abitava a Torino, gli scrissi una cartolina dal Vaticano con tanto di francobollo papalino. Trovandomi all’estero nell’indirizzo puntualizzai Torino, Italia. Mi sentii soddisfatto, importante, uomo di mondo.
Poco dopo, ero ancora al liceo, trovai nella Domenica del Corriere un annuncio per cercare amici per corrispondenza, mi iscrissi subito. Sarebbe stata anche una buona ragione per praticare l’inglese e per avere francobolli di paesi stranieri. Fu così che dopo qualche settimana ricevetti una lettera dal Giappone: era Kazuko, una ragazza carina della mia età, mi aveva mandato una sua fotografia. Mi sentivo importante quando andavo all’ufficio postale e tutto orgoglioso chiedevo: un francobollo per il Giappone. La nostra corrispondenza durò alcuni anni.
Quando nel 1960 Carlo ritornò in Italia dopo aver studiato per un anno negli Stati Uniti la prima cosa che mi disse fu:
“Ho incontrato una tua amica, indovina dove? Nel giardino della White House. C’era anche il Presidente Eisenhower con la moglie.”
Dire che fui sorpreso e dir poco. Carlo aveva vinto una borsa di studio ed alla fine dell’anno scolastico assieme a tutti gli altri centinaia di studenti come lui era stato portato in visita a Washington, ed il 4 luglio furono ospite del Presidente per un picnic nel parco della White House. Fu proprio lì che Carlo incontrò una ragazza giapponese che gli disse d’avere un pen-pal italiano di nome Fausto di Sansepolcro, al che Carlo subito aggiunse:
“Oh il mio amico Fausto Braganti.”
La ragazza fu sorpresissima, era proprio lei, Kazuko.
Poi c’erano le lettere dei parenti d’oltreoceano, una cugina ch’era andata in Cile ed uno negli Stati Uniti. Le aspettavo per vedere se c’erano nuovi francobolli. Però mi pareva che fossero sempre gli stessi.
Quando venne il momento di dichiarare il mio primo amore decisi di farlo con una lettera. Non volevo che la mi’ mamma mi vedesse e decisi d’andare nell’ufficio di mio zio.
Spesso in estate, quando ero ancora al liceo, andavo per alcuni giorni dagli zii a Gubbio. Fu emozionante la volta che mio zio mi disse con un sorriso compiaciuto:
“C’è una lettera per te!”
Ero felice, lei mi amava, ecco la prova, lei m’aveva scritto.
Mi piaceva scrivere, ma mi piaceva ancora di più ricevere lettere. Quante volte mi posizionavo nella finestra di cucina da dove potevo avvistare il postino in arrivo, e come ero contrariato, triste quando non c’era niente.
Poi andai all’università e cominciai a viaggiare in lungo e in largo e le conoscenze si moltiplicarono. Ci furono anche amori nati per corrispondenza che poi finirono quando ci ritrovammo assieme. Le lettere avevano permesso all’immaginazione di creare quello che non esisteva nella realtà. In certi giornali c’erano anche gli annunci personali. Solo una volta risposi ad uno di questi, sembrava essere una donna interessante. Dopo un paio di lettere fissammo un appuntamento per il pomeriggio di sabato 5 novembre 1966 sotto il David di Piazza Signoria a Firenze. Lei non si presentò e neanche io: il giorno prima era arrivata l’alluvione. Un amore annegato, che si perse nel fango.
Non ho dato retta al consiglio di Mark e quest’estate a Tuchan ho riaperto quelle scatole. Sono rimasto sorpreso dalla quantità della mia corrispondenza
Si, son balzati fuori fantasmi femminili.
Mi son messo a rileggere a caso, dopo aver riconosciuto certi nomi ero curioso di rivedere quello che avevano scritto. La prima conclusione, io di donne non ci capivo molto! E non è detto che col tempo la situazione sia migliorata dimolto. Spesso le lettere erano così chiare, loro sapevano quello che volevano, ero io l’imbranato che non capivo il loro messaggi. Mi son quasi commosso quando ho trovato un capello arrotolato e lei mi dice che è lungo 55 centimetri, l’ha misurato prima di appiccicarlo con lo scotch nel foglio. In un’altra ho trovato la forma della bocca, il rossetto delle labbra turgide aveva lasciato l’impronta con la promessa di momenti felici. Confesso, dopo tant’anni ho poggiato la mia bocca sul foglio, quando l’ho baciata i miei baffi non erano bianchi.
Ci sono state anche lettere che, riconoscendo il nome, ho deciso di non leggere. Sapendo del come era poi andata a finire la storia ho preferito rimandare, chissà, forse un giorno.
Ed oggi? Non ricordo quando ho scritto la mia ultima lettera o quando ne ho ricevuta una. I biglietti di Natale non contano.
Per me tutto cominciò a cambiare nel 1994, un collega mi suggerì che dovevo avere un indirizzo e-mail, posta elettronica come la chiamava il Maestro Guerri. Ma cos’era? Come funzionava? Mi disse che era una specie di fax che compariva sullo schermo del computer. Mi suggerì anche non dovevo usare il mio vero nome, così inventai balestrier@aol.com. Ma poi scoprii che non conoscevo nessuno a cui scrivere eccetto quel collega. In breve tempo la situazione cambiò, tutti avrebbero avuto un indirizzo elettronico, Si son moltiplicati i vari mezzi di comunicazione superveloce, istant messages, Facebook, Twitter, Skype, Facetime, Voip, Whatsapp, ecc…
Conclusione, un giorno non troverò nessuna scatola con la mia vecchia nuova corrispondenza, tutto andrà elettronicamente perduto.
NOTA, Alcune considerazioni a proposito della busta:
Il timbro tondo di Roma Ferrovia indica addirittura tre giorni “23-24-25” e non so il perché. Che forse la posta del sabato e della domenica partiva tutta con quella del lunedi? Di certo il 25 era un lunedì, il giorno del matrimonio. Il X per ottobre, 37 per l’anno e XV per celebrare l’Era Fascista. Ma c’è anche un secondo timbro, rettangolare con un ordine imperativo, di tipico stile mussoliniano: VISITATE L’ITALIA. Questa volta son con lui, voleva che gli italiani scoprissero la propria patria. Furono aperte agenzie CIT in ogni provincia. Il mi’ babbo obbedì al comando e per il suo viaggio di nozze comprò i servizi presso l’ufficio CIT di Perugia.
L’indirizzo: il babbo ha scritto il nome del nonno prima del cognome, in un tempo in cui il cognome veniva sempre prima. Solo i ceti più alti usavano questa maniera. Come ho detto altre volte, il mi’ babbo a forza di stare coi signori credeva d’esserne uno. Il Largo del Duomo dopo l’Unità d’Italia divenne via Roma, si voleva ancora una volta dar risalto alla nuova capitale italiana, non più sottoposta all’autorità papalina. Il numero “1” corrisponde al Palazzo delle Laudi, dove a quei tempi i miei abitavano, ed era proprietà di Serse Bartolomei di cui mio nonno era l’amministratore. Non pagava l’affitto.
23 settembre, Marblehead, MA USA
ftbraganti@verizon.net
Facebook: Fausto Braganti
Skype: Biturgus (de rado)
settembre 23, 2014 alle 10:30 am |
sei sempre un grande scrittore (merito forse anche del maestro Guerri ? )