E son passati cent’anni! E pensare che m’arcordo del cinquantenario, ed allora di reduci vivi ce n’erano ancora tanti. Il 24 maggio, la dichiarazione di guerra, credo che abbia conosciuto quella fatidica data da sempre, immortalata anche dalla canzone omonima, che a detta di tanti era stata una delle forze che avevano portato alla vittoria.
Nel cinquantenario del ’65 La Domenica del Corriere, ancora c’erano quelli che la leggevano, ripubblicò una serie di tavole di Achille Beltrame. Credo che fu proprio lui che, con le sue classiche illustrazioni settimanali sempre un po’ agiografiche, a popolarizzare gli eventi in ogni angolo dell’Italia, visualmente narrando l’eroismo ed il sacrificio delle nostre truppe.
Celebrazioni? Commemorazioni? Di certe ce ne saranno tante per questo centenario e chiamatele come volete, io preferisco definirle “commemorazioni”. Per me non c’è nulla da celebrare, specialmente l’inizio d’una guerra, e quella fu definita Grande proprio per la sua portata, mai vista in precedenza. Ci voleva una Seconda perché quella cambiasse nome per diventare la Prima.
Una era stata la guerra dei nonni e l’altra quella dei babbi. Negli anni che seguirono, ai tempi della cosiddetta guerra fredda, sembrava inevitabile che ce ne sarebbe stata un’altra, la Terza. E quella sarebbe toccata a me, ero cresciuto con l’idea che quello sarebbe stato il mio dovere.
Diciamo che m’è andata bene, che c’è andata bene.
Son 70 anni che noi (europei occidentali) non facciamo una guerra fra di noi, questo non era mai e poi mai successo nella storia, sin dai tempi della Pax Romana. Direi
che questo è il vero miracolo di cui ben pochi parlano, forse perché, con gli americani in testa, non abbiamo smesso di esportarla.
Ma come arrivò la notizia della dichiarazione di guerra a Sansepolcro quel fatidico 24 maggio? Di certo non fu una sorpresa, tutti sapevano, anche i più ottimisti, che era inevitabile, era solo una questione di quando. Il mi’ babbo raccontava, allora aveva 11 anni, che suo padre (il mi’ nonno Barbino) ritornò a casa col giornale, di certo La Nazione, e che si mise a leggerlo ad alta voce in cucina. La nonna si mise a piangere. Il nonno le ripeteva di star tranquilla, che lui aveva 41 anni, ch’era vecchio e senza alcuna esperienza militare. La rassicurava che non lo avrebbero richiamato. Si sbagliò nelle sue previsioni.
Non so cosa si disse quella sera nella casa Taba, la famiglia di mia madre, in via San Puccio. Il nonno Giuseppe, 36 anni, fu subito richiamato e parti, fantaccino semplice
con tutti i denti, lasciando la moglie Santina con tre bambine, di 5 e di 3 anni e la mi’ mamma di solo un mese. Come tanti altri camminò lungo il viale della stazione e chissà quante furono lacrime versate. Per lui la prima tappa fu una caserma in Piemonte, ma non so dove e dopo poche settimane fu spedito al fronte, in trincea. Anche di questo non ci sono memorie, come raccontava mia madre, suo padre non ne voleva parlare. Dopo alcuni mesi si ammalò con una grave infezione alle gengive ed perse tutti i denti e fu rimandato a casa. Forse qualcuno lo considerò fortunato, per lui la guerra era finita. La nonna si ritrovò un marito vivo, sdentato e vecchio di spirito, che non sorrise mai più. Non gli fu mai riconosciuta alcuna invalidità e tantomeno pensione. Perdere i denti non è una ferita. In trincea era diventato socialista.
E come arrivò la notizia all’anonimo ufficiale austriaco, quello di cui posseggo dei frammenti del diario? Forse era già nell’esercito imperiale e doveva solo aspettare la destinazione, sarebbe arrivata: nel Carso per fermare l’avanzata degli italiani. Intanto lui sognava d’incontrare una donna bellissima come Madame Récamier.
E quando il medico fotografo di cui ho i negativi di vetro, anche lui senza nome, seppe che doveva partire? Certo si preoccupò di portare tutto il materiale fotografico. Quello era un evento storico.
Domenico, il cugino del mi’ babbo, fu fra quelli che non tornarono, credo che sia sepolto a Redipuglia. Sua madre. la zia Domenica venne da Arezzo ad Anghiari per farsi fotografare col figlio. La storia rasenta l’assurdo: lei era rimasta incinta da ragazza ed aveva lasciato il figlio presso una famiglia di contadini dalle parti d’Anghiari, s’era poi trasferita ad Arezzo dove s’era sposata ed avuto altri figli. Il marito non seppe mai di questo figlio illegittimo della moglie.
Il nonno Barbino, nonostante le sue buone intenzioni, non mantenne la promessa di rimanere a casa, infatti dopo Caporetto furono richiamate le classi del ’99 e del ’75 e ’74 ed anche lui partì, era fra i più vecchi. Quando sua sorella Domenica, che aveva già perso il figlio, seppe che lui era nella caserma ad Arezzo organizzò con altre madri e vedove una dimostrazione contro la guerra. Schiaffeggiò un ufficiale che era venuto per calmarle e disperderle. Per questo si face diversi mesi di prigione come disfattista. Il nonno non andò lontano: Fortezza da Basso a Firenze, stazione di Camucia e finì la guerra a Sansepolcro, la sera tornava a casa alla Fontesecca a dormire: era fra quelli che raccoglieva paglia e fieno per l’esercito.
Il babbo, adolescente ai primi anni della Scuola Tecnica, imparò a far la calza, i soldati avevano bisogno di tenere i piedi caldi. Quello fu il suo contributo.
Di reduci ne ho conosciuti tanti e gli ultimi sopravvissuti divennero Cavalieri di Vittorio Veneto. Tante sono le storie che mi hanno narrato: certi nomi riecheggiano ancora come luoghi mitici. Mi parlavano dell’Isonzo, di Gorizia, del Carso, del Vallone di Doberdò, del Podgora, dell’Altipiano e di tanti altri. Non ho mai incontrato un eroe, ma solo uomini che avevano fatto il loro dovere. Per esempio solo dopo la morte scopri che Bastiano era stato multi decorato, ancora costudisco le medaglie che la moglie mi diede. Ai tempi del cinquantenario c’era un uomo, un invalido che abitava non lontano da noi in via dei Filosofi. Spesso lo vedevo vagare per i campi, non parlava mai con nessuno, per poi correre e d’improvviso nascondersi in un fosso, per lui quella era una trincea, ancora sentiva le esplosioni degli obici, per lui la guerra non era mai finita.
Ci sarebbe altro da dire, ma poi in fondo non è necessario, finiamola qui. Per ognuno di noi gli anniversari, che essi siano celebrazioni o commemorazioni, anche se hanno un valore, un significato soggettivo alla fine ci uniscono, ci accomunano, almeno per un giorno ci fanno sentire più vicini: ecco il valore della memoria comune.
Chiniamo la testa con rispetto per tutti, vincitori e vinti, ed abbracciamoci.
PS: ancora una volta peroro la causa della placca sopravvissuta del vecchio monumento ai caduti. Vorrai tanto che, per onorare la memoria di tanti sacrifici, non rimanesse all’oscuro ma che fosse esposta al pubblico, magari nel cortile del Palazzo delle Laudi assieme alla placca del Bollettino della Vittoria, quella che non venne distrutta nell’esplosione della Torre di Berta.
Marblehead, 21 maggio 2015
Il mio libro “M’Arcordo… Storie Borghesi” è in vendita nelle librerie di Sansepolcro, eccetto una.
Presentazione del libro M’Arcordo…
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Facebook: Fausto Braganti
Maggio 21, 2015 alle 11:11 am |
Da quello che ho capito della guerra vissuta 40/45 e quella 1915/1918 raccontata dal mi’ babbo, i veri eroi non raccontano facilmente le loro gesta; le hanno fatte in un momento di bisogno , per difesa personale, degli amici e della Patria, e per far questo hanno dovuto anche uccidere. Militarmente è tutto regolare ma nell’umano sentimento : solo dopo tanti anni riescono a farsene una ragione , come il “BASTIANO” del tuo magnifico racconto.Gli “esaltati” quelli si, raccontano ma il più delle volte sono gesta inventate.