043a M’Arcordo……la scuola elementare (prima puntata)

Nell’autunno del ’47 avevo sei anni, e un giorno la mi’ mamma me portó a scuola, andavo in seconda e la scuola elementare era da n’altra parte del Borgo, nella Piazzetta de Santa Chiara.

Ve l’ho giá detto che non ho mai fatto la prima, avevo imparato a leggere e scrivere, e arpensandoci mica tanto bene, da la Beppa de Via San Puccio.

Il nome dalla mia scuola, “Edmondo De Amicis”, mi sembrava strano: finiva colla “s”, non avevo ancora mai conosciuto nessuno con un nome che finisce colla “s”. Da noi quasi tutti i nomi finiscono con la “i” o almeno con ‘na vocale. Ed anche Edmondo era differente, il suono di “dm” mi sembrava un errore di scrittura. Penso che fu proprio in quei tempi che ‘l mi’ babbo cominció a leggermi il libro “Cuore”, allora seppi che la mia scuola era stata intitolata in onore dell’autore. E non molto dopo leggendo ”Il Conte di Montecristo” in un’edizione minimizzata per ragazzi, scoprii che uno di quelli che poi sarebbe divenuto uno dei miei grandi eroi si chiamava Edmond.

Con la scuola elementare cambió il colore del grembiulino, da quello bianco delle Maestre Pie passai a quello nero. Era un miglioramento rispetto al primo perchè il bianco era il colore di quello delle cittine, ma in ogni modo anche se era nero il grembiulino non mi piaceva, anzi lo detestavo. Riuscii a convincere la mi’ mamma a non avere il colletto bianco ed il fiocco. Poi imparai a far di tutto per sporcarlo, in tal modo speravo che il giorno che lo lavavano non l’avrei dovuto mettere. Illuso! Me ne fecero un altro in modo che non c’era rischio che io ne rimanessi senza.

I primi tempi la mamma mi accompagnava e mi veniva a prendere. Poi smise d’accompagnarmi, ma continuó a venire a prendermi. Ero così contento quando uscivo e la vedevo, mi sentivo tranquillo.

Cominciai a muovermi più da solo o con nuovi amici al di fuori del gruppo della mia via e di Via della Castellina. Con la scuola elementare i miei orizzonti si allargarono. E proprio quelle breve tragitto da casa alla Piazzetta di Santa Chiara divenne per me come una spedizione piena di prevedibili avventure ed ostacoli non difficili da superare.

Uscendo, in via della Firenzuola, presto al mattino, giravo a sinistra nella stretta Via Pettorotondo per arrivare alla Via Maestra. Proprio li davanti c’era la cartoleria della Sora Cecca Boncompagni. Certo poco prima del primo giorno di scuola andammo da lei a comprare la cartella di fibra, ma non m’arcordo. Noi ci si serviva li, ‘l mi babbo comprava La Nazione, La Domenica del Corriere e la Settimana Enigmistica, poi venne L’Europeo, quindi ci s’andava spesso. C’era sempre anche ‘l Sor Italo che chiacchierava col mi’ babbo ed ho anche un vago ricordo del su’ babbo ‘l Sor Ausonio, seduto sulla poltrona. Ogni volta che me vedeva me chiamava con un gesto della mano e me demandava di chi ero ‘l citto.

“So’ ‘l figliolo de Renato Braganti.”

”Ah, Renato!” esclamva soddisfatto ed io mi dicevo:

“Ma lui non se n’arcorda mai di chi so’ ‘l figliolo, gliel’ho detto anche ieri!”.

Con la cartellina mi comprarono un quaderno a righe ed uno quadretti, penna e pennini, il lapise e l’aguzzalapise, la gomma, l’astuccio de legno ed un foglio di cartasuga,  e le matite a colori Giotto, la scatola da sei, quella con il disegno di Giotto pastorello che fa un cerchio perfetto su una pietra sotto lo sguardo sorpreso e soddisfatto di Cimabue.  Ce n’era anche una confezione da dodici matite, bellissima, ma non credo d’averla mai avuta. Non so come, ma ad un certo punto, mi diedero una cartasuga con la pubblicitá della Pastina Glutinata Buitoni, era roba di prima della guerra. A proposito de roba de prima della guerra la Sora Cecca aveva ancora quaderni con in copertina le illustrazioni delle gloriose imprese delle nostre eroiche truppe in Abissinia, che combattevano contro il Ras Alula (che strana cosa la memoria, mi é tornato in mente questo nome dopo più di sessant’ anni e poi non m’arcordo cosa ho mangiato per cena due sere fa!). Gli abissini avevano lance e scudi tondi, come quello che noi s’aveva in salotto. Quelle illustrazioni assomigliavano un po’ a quelle della Domenica del Corriere. Poi c’erano dei quaderni dalla copertina nera ed il bordo delle pagine era rosso, non mi piacevano. Quando si comprava un pennino la Sora Cecca tirava fuori una scatola con tanti piccoli compartimenti con in vari tipi di pennini, ognuno aveva un nome, mi ricordo solo “campanino”, ma quello che mi piaceva era come una manina e l’indice era la punta. C’erano due tipi d’astucci, uno era, diciamo a un piano: si sfilava il sopra e si apriva il ricettacolo nel legno dove mettere la penna, il lapise ed altre piccole cose. C’era anche un ambitissimo modello d’astuccio di lusso, era quello a due piani in cui la tavoletta del coperchio aveva al centro un righellino con i centimetri che si poteva sfilare. Con l’acquisizione di questa roba imparai subito nuove espressioni del gergo d’alunno dell’elemantari.

“Te do ‘na cartellata!” oppure “Te do ‘n’astucciata!”

C’erano altre cartolerie, Bigiarino in piazza, ed il Nicastro a Porta Fiorentina, che più d’un negozio sembrava un corridoio pienissimo di roba. Infine c’era una piccola cartoleria proprio nella Piazzetta di Santa Chiara, ma non mi ricordo molto.

Dopo la Sora Cecca facevo pochi passi e passato il negozio di ferramenta di Corradino De Rosi, giravo a sinistra e scendevo giù per Via Gherardi. Corradino era uno dei migliori amici del mi’ babbo, erano stati a scuola assieme. Spesso la sera quando se faceva un giro per la Via Maestra, s’andava a trovallo e mentre loro parlavano io studiavo tutti quegli oggetti de ferro. Mi piaceva tantissimo un piccolo candeliere di ferro battuto che aveva sulla scrivania. La candela era infilata in una specie di spirale e come si consumava se poteva spingere verso l’alto svitandola, non la vidi mai accesa. Arrivavo fino all’incrocia con Via San Giuseppe e li c’era sempre un forte odore, forse sarebbe meglio dire un puzzo: era il magazzino de la Gnignella che comprava le pelli de coniglio, per poi rivenderle. Non capivo a chi potessero interessare quelle pelli puzzolenti. Continuando giù per Via Gherardi c’era un posto, sulla sinistra che mi faceva un paura: era l’officina del Croci ed io camminavo svelto svelto, rasente al lato opposto della strada. Questa mi sembrava fosse la caverna, scura, misteriosa, affumicata dell’orco cattivo. Non ci sono mai entrato fino quando ero grande ed andavo al liceo. Allora scoprii che il Croci, dietro quell’aspetto burbero era in fondo una persona gentile. Mi regaló e non so perché, due lame di spade, senza manico. Li vicino ci stava Serafino Nofri, era dela classe del mi’ nonno, che aveva avuto ‘na barcata de citti e Marco é  ’l su’ nipote. Quando divenni un pochino più grande andavo a trovallo perché c’aveva ‘na gran collezione de francobolli. M’arcotava de quando era andato a far la guerra ‘n’Africa, quella contro Menelik, a la fine de quel’atro secolo.

Alla fine arrivavo nella Piazzetta de Santa Chiara, con la fontana ‘n tul mezzo. Non solo ci andavano le donne a prender l’acqua con la brocca ma  era anche un abbeverratoio per le bestie. E de bestie ce n’eran sempre tante, le portavano ferralle dal maniscalco, che aveva la fucina nella piazza. Bisognava stare atenti di non calpestre le cacche quando si girava per la piazza. ’l babbo me diceva che ‘l vecchio fabbro Oreste Caporali, ‘l babbo de Beppe anche questo amico del mi’ babbo, era stato un gran burlone e dato che cantava bene, ‘na volta gl’avevano dato ‘na particina nel Rigoletto, credo. Quando arivó ‘l su’ turno e doveva cantare le sue tre parole “Ecco la chiave!” Oreste non seppe resistere alla tentazione di dille ‘n Borghese e tutte voce gridó:

“Ecco le chievi!” I Borghesi sanno come pronunciare questo “ch” ed io che non sono un linguista come ‘l Mattesini non so la grafia fonetica.

E tutto il pubblico scoppió in una gran risata che non finiva mai. Il direttore dell’orchestra e gli altri cantanti furono gli unici a non ridere. E ogni volta che ‘l babbo me riraccontava la storia io ridevo come se fosse la prima volta che la sentivo. Ma io Oreste non l’ho mai conosciuto. C’erano altri maniscalchi, forse uno era Pietro Monti che poi andó a Porta del Ponte, acanto a la pesa de Beppe Giorni.

Nella piazza, dal lato della via del Fiorentino accanto al palazzo Aloigi, come ho giá detto c’era una piccola cartoleria, poi c’era Mencarino che faceva ‘l calzolaio e non ‘l ciabattino, e quando ‘l tempo era bono metteva il descetto ‘n tu la via. C’era anche un salumiere, ma io non c’andavo, la mi’ mamma me mandava a scuola con il panino de la colazione giá fatto, ‘ncartato e dentro la cartellina.

 

 

E alla fine di questo viaggio, li davanti a me, ogni mattina si ergeva il grande edificio della Scuola Elementare Edmondo De Amicis. La scuola era imponente, specie per un cittino di sei anni. Sembrava che mi aspettasse per mangiarmi. Si entrava da una piccola porta ma s’usciva da quella grande. L’Armida, la bidella, bassa e grassa suonava la campanella e noi s’entrava in un gran cortile circondato da un porticato su due piani, dove si affacciavano le aule. C’erono tutto intorno delle statue di gesso importanti ed imponenti, ma anche con dei culi ignudi.  Fu allora che vidi più da vicino Piero della Francesca, copia di quella che é al giardino. Questa peró non stava in alto piedistallo, si poteva vedere bene.

Salivamo al secondo piano ed entravamo nell’aula. Penso che quel primo giorno la mi’ mamma mi accompagnò fino a quando fui seduto al mio banco, ‘n prima fila, io ero picino.

 

20 gennaio 2009, Marblehead, MA USA                                                                                        

 

I  vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete! Fausto Braganti      

 

ftbraganti@verizon.net

Facebook: Fausto Braganti

Skype:       Biturgus

 

Scuola Elementare Edmondo De Amicis - cortile

Scuola Elementare Edmondo De Amicis - cortile

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