060c M’Arcordo…l’alluvione di Firenze del ’66 (terza parte – lavori in corso)

Non sapevo da dove cominciare, allora decisi d’andare a Sant’Apollonia, la mensa in Via San Gallo. Camminando per Via degli Alfani notai che c’era gente  dappertutto, gente che lavorava, che svuotava negozi botteghe, nella speranza che ci fosse qualche cosa da salvare. Il caffé all’angolo con Via dei Servi, dove spesso facevo colazione non c’era piú, era stato sventrato dalla corrente. Niente cappuccino col cornetto.

Alla mensa trovai un gruppo di studenti che si stava organizzando per andare ad aiutare delle persone anziane dalle parti di Via della Scala. Non c’erano piú badili e mi diedero una vanga e mi unii a loro. Avrei presto scoperto che la vanga era stata inventata proprio per vangare e non mi fu molto utile per spalare, ma mi c’ero subito affezionato e ma la portai dietro per giorni, poi la persi, la lascia da qualche parte e qualcuno se la prese.

Piazza Santa Maria Novella Santa Maria Novella

Passando per Santa Maria Novella vidi che c’era chi sperava di recuperare delle scarpe, mettendole ad asciugare in una panchina. Fu proprio da quelle parti che notai, seminascosto in un mucchio di detriti, un boccale. Mi chinai e quando lo presi in mano vidi che era un bel boccale di peltro, di certo portato via da qualche negozio elegante del centro. Cosa fare? Lo prendo? Lo tengo? Dopo un momento d’incertezza lo rigettaio nel mucchio.

Quando arrivammo all’indirizzo che ci avevano indicato scoprimmo che c’era ben poco da fare. Le abitazioni nei seminterrati erano ancora piene d’acqua, ci sarebbe voluta ‘na barca. Mi separai del gruppo e decisi d’andare verso Piazza Signoria, ero sicuro che a Palazzo Vecchio sarebbero stati capaci di mandarmi dove c’era bisogno.

Quei primi giorni furono caretterizzati da una gran confusione. Le intenzioni di tanti erano meritevoli, ma poi spesso si perdevano nella direzione sbagliata anche perché molte informazioni erano incorrette e contradittorie.

Non so chi fu ma qualcuno mi disse d’andare li vicino, all’Archivio di Stato, allora era ancora sotto gli Uffizi, come ai tempi del granduca. Poi, credo anche a seguito di quest’evento, gli trovarono un’altra sede.

All’Archivio avevano bisogno d’aiuto. Lungo la grande scalinata s’era formata una catena umana e dagli scantinati e dal piano terra venivano prelevati pergamene. filze, libri, documenti e facendo il passamano venivano portati al secondo piano, quello proprio sotto alla Galleria degli Uffizi, dove degli archivisti li smistavano cercando di dare un minimo d’ordine, cercando anche di trovar dello spazio dove si potessero asciugare. Ottimisti, ci sarebbero voluto mesi. C’era un senso d’entusiasmo quasi d’euforia, sapevamo di salvare documenti e libri importanti o almeno facevamo il possibile. Giá si sapeva dei grandi danni ad opere d’arte, come quelle nella chiesa di Santa Croce e nella Cappella dei Pazzi. Questo era il nostro contributo.

1966-11- Alluvione- Archivio 14. Corridoio dell’Archivio di Stato

Ricordo uno studente che si mise a gridare tutto eccitato passando un pacco di documenti legati in una cartella di pelle bagnata, dopo averne letto il titolo.

“Questa é una filza del Bargello del 1305, dei tempi di Dante!”. Emozionante.

Poi all’improvviso si sparsa una voce. “Sono arrivati gli americani!”come se fossimo in un film “Arrivano i nostri!” Ci hanno chiesto di scendere ad aiutare. Nel cortile c’erano due camion militari e dei marines, la prima volta che ne vedevo alcuni dal vero, erano arrivati dalla base Nato di Livorno. Avevano portato dei generatori elettrici ed alcuni di noi ci siamo dati da fare a scaricare dei pesanti rotoli di cavi. Efficenti hanno impiantato tutto un sistema di lampade per illuminare gli stabile inferiori, che altrimenti erano al buio e noi li abbiamo aiutati a stendere i fili.

A sera son tornato alla mia pensione stanco e sporco, ma soddisfatto del mio lavoro. Non m’arcordo che cosa o dove ho mangiato. Nessuna bellissima ed eterea ragazzina di buona famiglia dai capelli lunghi è venuta, come nel “La Meglio Gioventù”, a portarci i panini col prosciutto.

Il giorno dopo son tornato all’Archivio, ma mi hanno detto che c’erano troppi volontari, alcuni di noi dovevano andare a lavorare di fronte, dall’altro lato del cortile, all’Accademia dei Georgofili (quella diventata sfotunatamente famosa per l’attentato del ’93).  Mi son presentato al mio nuovo posto di lavore con tanta buona volontá, e non sapevo cosa mi aspettava. Con altri sono sceso nella semioscuritá in uno scantinato pieno di fango fetido e vischioso, che mi arrivava ai polpacci, speravo solo che non fosse più alto dei miei stivali. Dovevamo trovare e tirar fuori dal fango delle cassette di legno e portarle al piano superiore. Erano pesantissime e scivolavano via dalle mani. Ma che cosa c’era dentro? Erano piene di lastre, vecchi negativi fotografici di vetro. Fu il lavoro più duro e fatigoso di tutta questa esperienza.

All’ora di pranzo ritornai in Piazza della Signoria, il tempo continuava ad essere bello e stanco mi misi a sedere negli scalini sotto il Davide.  Mi misi a parlare con l’uomo (quello alla mia destra nella foto) seduto accanto a me. Cominciò enumerando tutto quello che gli era successo; abitava proprio dietro Palazzo Vecchio, in una di quelle stradine strette vicino all’Arno e aveva perduto tutto e a questo aggiunse una litania di sciagure. Poi cominciò ad inveire un po’ contro tutti, per quello che non avevano fatto prima e per quello che non facevano adesso. Ce l’aveva con tutti i politicanti, primo fra questi il Presidente Saragat, che erano venuti a vedere e sopratutto per farsi vedere che erano a Firenze per aiutare. Ma nessuno di loro aveva preso in mano un badile. Poi d’improvviso interrruppe la sua diatriba e con il suo fortissimo accento fiorentino, che non cercherò di trascrivere,  mi disse con un tono quasi serio:

1966-11- Alluvione-Fausto-18 Sugli scalini di Palazzo Vecchio

“Ma lo sa ch’ha detto il Biancone al Davide quando ha visto l’acqua che saliva?”

“’n’ho so! Ma che gli ha detto?”

“Speriamo che l’acqua salga, sarebbe l’ora de lavasse le palle dopo cinque secoli!”

E cosi finì la nostra conversazione, si allantonò smadonnando e ricominciando le sue lamentele.

In questi miei ricordi ci sono dei vuoti, per esempio non ho memoria di nessun pasto, di nessun caffé, di nessuna bevanda, ma son sicuro d’aver mangiato, qualche volta.

Il terzo giorno son tornato di nuovo all’Archivio, ma questa volto sono stato bloccato all’ingresso.

“Sei stato vaccinato? Devi esser vaccinato per lavorare qui.”

“Vaccinato? Ma per che cosa?”

“Per il tetano, vai subito alla Biblioteca Nazionale. C’è un centro militare e fatti vaccinare.”

Mi avviai con altri nella stassa situazione: eravamo i vaccinaturi. Borgo de’ Greci era in condizioni disastrose, ancora difficile da traversare, e quando Piazza Santa Croce si apri davanti mi resi conto ancora di piú di tutta la portata dei danni inflitti alla cittá. Dante dall’alto del suo piedistallo, nel centro della piazza, o meglio di quello che una volta era un parcheggio ed ora una discarica di macchine sfasciate e detriti di tutti i generi, dominava il tutto. Il poeta, non ancora rimosso e rilocato sul lato sinistra della chiesa, sembrava incazzato proprio per tutte quella sporcizia fetida che lo circondava. Certo allora non lo sapevo, ma un giorno sarebbe stato lo sfondo ideale per Benigni. Dove avrebbo potuto trovare uno luogo migliore per declamare il VI dell’Inferno, quello dei Golosi?

L’Arno aveva rotto proprio davanti alla Biblioteca, non c’era piú il lungarno. La piena del fiume era entrata nella Nazionale con tutta la sua furia dalla porta principale. Trovammo tantissimi giovani che lavoravano, lunghe file di passamano che tiravan fuori libri dai profondi labirinti dei fondi senza fine, da kilometri di scaffali divelti e crollati. C’era tutta l’alacritá di chi era coscente di salvare una fetta, o almeno una fettina della nostra civiltá.

Ma dove era venuta tutta quella gente?

Tutti sporchi ed infangati, sudati e stanchi, senza la speranza d’una doccia alla fine della giornata, e senza paga e nessuno aveva chiesto loro d’esser li. Non avevano l’obbligo d’una corvée.

Erano li perché avevano scelto d’esserci. Erano liberi d’andare quando voloveno, ma ogni mattina si presentavano puntuali al loro turno con tutto l’ottimismo della mia generazione che ancora sperava che sarebbe stata in grado di cambiare il mondo.

A noi ci indicarono di salire al secondo piano. La fila di quelli che dovevano esser vaccinati era lunghissima, scendeva giù per la scalinata che porta al secondo piano. Non ho mai visto tanti culi come quel giorno. Infatti arrivati in cima si formavano due file, e degli ufficiali medici ordinavano a tutti, ragazzi e ragazze:

“Giù i calzoni!” e tak, ti sparavano nella chiappa la tua dose di vaccino.

Mentre ero in fila aspettando il mio turno mi trovai vicino ad una ragazza di Scienze Politiche che conoscevo. Questa mi domandò dove lavoravo e quando seppe che ero all’Archivio mi disse:

“Ma perchè non vieni a lavorare con noi. La nostra biblioteca, la nostra collezione di giornali e di riviste politiche è stata alluvionata. Abbiamo bisogno d’aiuto.”

Cambiai carriera. Che strano, fino a quel momento non avevo pensato di andare a vedere cosa era successo in facoltá e da quel giorno andai a lavorare al Cesare Alfieri in Via Laura. C’era anche il vantaggio ch’era vicinissima a casa mia. Questo lavoro mi tenne occupato per alcuni mesi. Divenni un esperto, si fa per dire, nell’asciugare i giornali bagnati, giornali sfusi e giornali rilegati in grossi volumi, che diventano pesanti quando son molli. La qualiatá della carta dei giornali é forse la peggiere e se bagnata si disintegra solo a girar pagina. Tutti parlavano dei danni subiti delle grandi opere d’arte,  fra queste forse il più noto fu il crocefisso di Cimabue, ma nessuno parlò di altre opere uniche: certi vecchi giornali, di cui esisteva una sola copia che andarono perduti, documenti di vita insostituibili.

Ma forse su questo lavoro e sul post-alluvione scriverò un altro M’Arcordo.

Quando potevo facevo dei giri e ovunque c’era gente che lavorava, che portava via detriti. I volontari erano aumentati e venivano da tutte le parti; credo che il contributo degli studenti bolognesi sia stato il più nutrito, ci furono anche quelli che vennero dall’estero. Tutti volevano aiutare a salvar Firenze, almeno quello che si poteva salvare. Era una missione.

M’arcordo che una sera andammo alla stazione di Santa Maria Novella dove tanti studenti dormivano nei vagoni di treni lasciati per loro lungo binari morti. M’arcordo che un gruppo che ci invitò a mangiare con loro, affettati, formaggio e pane. C’erano alcuni con la ghitarra e con l’aiuto di fiaschi di vino, cominciammo a cantare. Gli altri nei vagoni accanto si unirono a noi alla fine l’intero treno divenne un gran lungo coro. Il repertoio era tipico dei tempi, canzoni rivoluzionarie ed anarchiche: “Bella Ciao” e Addio Lugano Bella” le più gettonate. Sentii per la prima volta anche canzoni della Guerra Civile Spagnola. Ripensandoci sembrava una prova generale di quello che sarebbe stato il ’68.

1966-11- Alluvione-Marzocco Libreria Marzocco in Via Martelli

Io ero e sono un grande amante di libri e vedere la montagna di libri bagnati ed infangati davanti alle librerie era una degli spettacoli che mi rattristava di più. Passando davanti alla libreria Marzocco di Via Martelli mi fece quasi sentir male. Raccolsi libri, speravo di salvarli, ma senza gran successo.

 Ottenni un lasciapassare, ma non m’arcordo chi me lo diede e con la macchina potevo uscire e rientrare nella zona ancora chiusa al traffico quando volevo.  

Le mie cose con Roberta non andavano bene, diciamo che i nostri rapporti erano cordiali. Andavo spesso a trovarla: a casa sua c’era l’acqua corrente, cosi potevo farmi la doccia.

Fu proprio una sera sul tardi ritornando a casa in Via della Pergola che vidi i primi segni che i tempi cambiavano. Dietro al Duomo, all’angolo di Via del Proconsolo, vidi una prostituta, niente tacchi a spillo, aveva gli stivali di gomma, anche lei si era adattata ai tempi. Non so se trovò dei clienti, non so se li trovava dove potevano andare, ma capii che era un buon segno, le situazione si stava avviando verso la normalitá.

 

6 novembre 2009, Marblehead, MA USA

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