087 M’Arcordo… quando ho fatto la mia prima telefonata
Telefono KTAS, circa 1910. Questa compagnia danese ha per anni controllato il mercato dei telefoni. Li ha venduti in tutto il mondo, forse milioni. L’ho comprato a New York circa 15 anni fa.
Dopo guerra a Sansepolcro eran ancora pochi quelli che avevano il telefono. Alora noi se stava in Via della Firenzuala, in affitto nella casa del Melandri, e non c’era telefono. Però c’era un allacciamento elettrico col resto del mondo, c’era un campanello. Non l’ho mai sentito suonare eccetto quando in qualche rara occasione controllavano se ancora funzionasse: era il campanello d’allarme della Buitoni, in caso d’incendio avrebbe dato l’allarme ed ’l mi’ babbo sarebbe corso a fare il pompiere. Senza esser troppo sarcastico e senza minimizzare le sue buone intenzioni, non m’era facile immaginare ‘l babbo pompiere. Mah, meglio così, non fu mai chiamato!
Solo i signori, i dottori, gli avvocati e forse qualche commerciante si potevano permettere un tal lusso, era un po’ come l’automobile. Non m’arcordo quando se stava nel Palazzo delle Laudi, ma forse ‘l Sor Serse Bartolomei, ‘l padrone de casa, ce l’avava. Penso che ci fosse una gran differenza fra le cittá grandi ed un posto di provincia come il Borgo. E pensare che così spesso nei film, specie quelli americani, c’erano sempre telefoni.
In fondo noi non ne avevamo bisogno, sarebbe stato un oggetto inutile, non c’era nessuno a cui potevamo telefonare, tutti quelli che conoscevamo non ce l’avevano. Per inciso e per una strana coincidenza, ovvero l’aiuto d’un amico esperto di certe novitá, all’inizio degli anni 90 ho avuto il mio primo indirizzo di p.e. (posta elettronica, peroro la giusta causa del mio maestro Guerri nel promuove questo termine). Non potevo scrivere a nessuno, nessuno ce l’aveva, eccetto proprio quell’amico che me l’aveva installata e non avevo nulla da dirgli.
Chi l’avrebbe mai detto!
Oggi, nell’era della comunicazione globale, sembra quasi impossibile immaginare un tempo quando il telefono era ancora una raritá e quei pochi che c’erano eran sempre massicci, pesanti e neri.
Ancora si mandavano telegrammi e per questi si doveva andare alla posta. In casa c’era l’idea che i telegrammi portavano solo cattive notizie, a meno quando si inviavano quelli con gli auguri di matrimonio. In uno scaffale in alto d’un vecchio armadio della casa del Borgo c’é ancora una valigetta piena di telegrammi ingialliti, sono quelli che i miei genitori ricevettero quando si sposarono nell’ottobre del ’37. Il numero dei telegrammi ricevuti doveva essere una specie di termometro che misurava le amicizie ed il prestigio della coppia. Il giorno che mi sono sposato a Londra nel marzo del 1970 ne ricevetti alcuni, ma la mia novella moglie non fu contenta quando lesse quello che diceva:
“Chiama la tua prima figlia Vanna.”
Parliamo d’altro!
A quei tempi al Borgo c’era il telefono pubblico e non so da quando ma certo da molto prima della guerra. La cabina telefonica, era proprio li davanti al Palazzo delle Laudi, dove poi ci sono andate le Guarde Comunali e adesso c’é l’Ufficio Turistico del Foni. Era vicinissimo a casa mia e ci passavo sempre davanti. Il telefonista, mi sembra si chiamasse Bista, era sempre lá seduto davanti al centralino. Il posto non mi piaceva, aveva un odore di vecchio, di stantio ed anche il telefonista non mi piaceva, forse mi faceva un po’ paura: era gobbo. Ma come funzionava?
centralino telefonico
A quei tempi non si poteva telefonare direttamente ad un altro telefono. Alzando la cornetta si accendeva una lucina nel pannello del centralino, dove c’era una persona che ti chiedeva con chi volevi parlare. Nella parte superiore del centralino c’erano tanti buchini, ognuno dei quali corrispondeva alla linea d’un altro cliente. Il centraliniasta inseriva lo spinotto di quello che aveva chiamato nel buchino del cliente desiderato ed ecco il miracolo: contatto fatto! I due si potevano conversare ed il centralinista poteva ascoltare, infatti si diceva che fosse un gran spione.
In teoria, anche perché non l’ho mai fatto, per telefonare al babbo alla Buitoni avrei dovuto prima parlare con il centralinista del posto pubblico, che mi avrebbe messo in contatto con la Silvia Boschi, centralinista della Buitoni, che avrebbe smistato la mia chiamata ed alla fine avrei raggiunto il babbo in ufficio.
Ecco, anche alla Buitoni c’era un centralino e la Silvia era la regina delle comunicazione. Anche lei era sempre seduta davanti a quella specie di pianoforte senza tasti, ma tanti pulsanti, buchini e spinotti dai cavi colorati. Lei m’era simpatica ed era amica della mamma, mi piaceva guardarla come si estricava con tutti quei fili senza infrenarsi.
Qualche volta, la domenica mattina, il babbo mi portava con se nel suo ufficio ed io ero contentissimo, mi sentivo importante, ero il figlio d’uno ch’aveva anche il telefono nella sua scrivania, e non solo. C’era anche un vecchissimo telefono appeso al muro, uno di quelli col microfono, la cornetta separata e la manovella: era un telefono interno, credo che servisse per parlare con i vari reparti dello stablimento.
Ma quello che mi piaceva di piú in quell’ufficio era una calcolatrice meccanica, sapevo ch’era americana, potevo fare del complicatissime somme solo tirando una manovella. Il mio sogno era quello di portarmela a scuola. Ripensandoci credo che il maestro Guerri non sarebbe stato contento.
Molt’anni dopo, proprio qui a Marblehead, andai ad una fiera di beneficenza in una chiesa e trovai una calcolatrice come quella che mio padre aveva nel suo ufficio. Ma che colpo di fortuna! Non potevo far altro che coprarla e di certo non costò molto. Questa volta fu mia moglie a non essere contenta;
“Ma dove la metti?”
Ed io me la son portata dietro per anni per vari uffici, suscitando la curiosiotá di tanti.
Le cose cambiarono, penso fosse verso il 1956-57. Comparvero al Borgo delle squadre d’operai specializzati della Teti (si chiamav cosi?) che cominciarono a mettere nuovi cavi telefonici un po’ dappertutto. Avevano delle scale lunghissime e di certo non soffrivano di vertigini, sembravano gli equilibristi del Circo Falorni. Impiatarono un nuovo sistema, moderno, non ci sarebbe stato piú bisogno, almeno per le telefonate locali, di chiamere il centralino: sarebbe stato sufficente comporre il numero e l’altro telefono avrebbe suonato automaticamente. Prima fecero gli allacciamenti nel centro e poi piano piano si spostarono nelle zone più periferiche. All’improvviso sembrò che tutti avessero bisogno del telefono, e fu allora che anch’io scoprii che ne avevo bisogno d’uno. Anch’io volevo telefonare, com’avevo visto fare nei film, una telefonata vera, importante. A quei tempi avevo una ragazza e volevo parlare con lei al telefono, sarebbe stato emozionante, ne ero certo. Ma il nostro non era un problema da poco, nessuno di noi due ce l’aveva, ma l’amore ci fece risolvere il problema e penso che l’idea fu proprio la sua.
Lei sarebbe andata a casa di certi suoi parenti, o forse erano amici, ed all’ora convenuta io mi sarei trovata a casa di Paolo, lui il telefono ce l’aveva, ed io l’avrei chiamata. Alle tre in punto feci i numeri, sentii il campanello suonare, ma forse solo una volta. Lei era dall’altra parte in attesa e sollevò la cornetta al primo squillo:
“Prontooo!”
Era lei, riconobbi subito la voce, che emozione! Ero contento. Non m’arcordo di cosa parlammo, ma di certo fu una telefonata breve ma bellissima ed anche storica, almeno per noi.
Pochi mesi dopo vennero a fare l’allacciamento anche a casa mia e mi sembra che ci assegnarono il numero 76-63 ed anche il nostro telefono era grande, pesante e nero. E così cominciò una nuova vita, potevo chiamare gli amici e si decideva a che ora andare al cinema.
Non m’arcordo quanto ancora rimase aperto il centralino pubblico, anche perché andai all’universitá a Firenze (1961). M’arcordo poi che c’era un centralino al bar dell’autostazione, la telefonista era carina e simpatica.
Nel 1982, quando stavo ancora a Washington, conobbi un giovane romano dirigente dell’Italcable che prendeva dei corsi d’economia. Un giorno per caso ci trovammo nello stesso aereo per New York, se questa storia l’ho giá arcontata scasatemi. Mi dissi che avrebbe incontatrato per pranzo il presidente della AT&T, ovvero della piú grande compagnia telefonica americana. Fissammo un appuntamento per ritornare assieme in serata con lo stesso volo per Washington. Quando lo vidi gli chiesi subito com’era andato l’incontro e prima d’andare nei dettagli mi disse con un tono solenne e capii che non cercava la facile battuta:
”Fra poch’anni useremo il telefono anche per fare le telefonate.”
Ma cosa voleva dire con questa frase sibillina? Ci ho messo piú di vent’anni per capire ed ancora le nuove tecnologie che ci offrono ogni giorno continuano a sorprendermi.
Il primo telefono portatile che vidi fu forse verso il 1983. Un giorno andai ad un pranzo d’affari e c’era un signore che venne con una valigetta: c’era un telefono! Sembrava che avesse bisogno d’una batteria grande come quella d’una macchina. E facendo un po’ il fanatico si mise a telefonare. Certo non era da mettere nel taschino della camicia.
L’evoluzione é stata rapida e i telefoni son diventati telefonini, sono sorprendenti con tutto quello che ti permettono di fare o di scoprire e diventano sempre piú complicati.
E come disse quell’oracolo, ovvero il gran presidente dell’AT&T: … li potrai usare anche per telefonare.
Ne inventeranno uno con cui un giorno potremo fare anche il caffé?
1 dicembre 2010, Marblehead, MA USA
Fausto Braganti
ottobre 15, 2012 alle 12:17 PM |
Fausto hai un amemoria inviidiabile,ci racconti un borgo e una società che abbiamo conosciuto leggendo libri,ma il tutto detto da te è veramente un’altra cosa Grazie!!!!!!!!!!!!!