089 M’Arcordo…’l viale della Stazione
”There is a small low-comedy railway across the hills from Arezzo”
Aldous Huxley in “The Best Picture” from”Along the Road” (1925)
”D’ Arezzo c’è una piccola ferrovia da operetta che attraversa le colline.”
ecco come in poche parole lo scrittore inglese Aldous Huxley descrive una delle possibili maniere per arrivare a Sansepocro. Secondo lui il mitico ”Appennino” era un trenino da operetta! Non era una cosa seria! E forse con tutte le storie ch’ho poi sentito arcontare un po’ di ragione ce l’aveva. Questa frase è proprio all’inizio del capitolo “The Best Picture” in cui Huxley parla con tanta ammirazione della Resurrezione di Piero e di tutte le emozioni che quest’opera desta in lui. Poi parla anche di come sia difficile raggiungere Sansepolcro, rendendo l’affresco accessibile solo ad un ristretta casta d’intenditori intelletuali, pronti a superare la prova d’un viaggio scomodo. Il giovane scrittore ci racconta anche d’essere arrivato a Sansepolcro venendo da Urbino con la corriera. Di questa non ne ho mai sentito parlare.
Così sappiamo che, penso fosse nel 1924, anche Huxley prese il trenino dal Borgo per andare ad Arezzo e lo immortalò nella letteratura inglese. Quel suo libro “Along the Road” fu molto letto in quegl’anni fra le due guerre, sia in Inghilterra e sia negli Stati Uniti. Fu proprio il ricordo della lettura di questo capitolo che forse indusse il giovane ufficiale d’artiglieria inglese Anthony Clarke a smettere di cannoneggiare il Borgo dalla sua posizione dalle parti di Citerna, ma questa è un’altra storia e non centra proprio niente con questa storia.
Quella mattina, forse dopo aver dormito al Fiorentino, si avviò verso la stazione per continuare questa sua avventura da pioniere artistico alla scoperta d’un’Italia meno nota. Mi piace immaginare che lungo il viale si unì al mi’ babbo ventenne ed a tutto un gruppo di suoi coetani (classe 1904) che la grandi sfere militari avevano deciso di mandare a riconquistare la Libia. Era il marzo del 1924. Per molti quella tappa da Sansepolcro ad Arezzo era la prima vota che montavano in un treno. Per loro quello non era trenino da operetta, era una cosa seria. E ci fu anche chi non artonnò; ‘l mi’ babbo m’arcontava che uno infatti morì combattendo nel Fezzan, nel deserto ‘n fondo alla Libia. Ma come si fa a partire a vent’anni dal Borgo per sparire fra le dune del Sahara? E nessuno si ricorda piú il nome.
La locomotiva a vapore si tirava dietro i vagoni e correva su dei binari a scartamento ridotto, credo che la distanza fra le due rotaie fosse meno d’un metro. La Ferrovia dell’Appennino Centrale, era stata costruita alla fine dell’ottocento e collegava Arezzo con Fossato di Vico in Umbria; dopo esser passata per Anghiari, Sansepolcro, Cittá di Castello, Umbertide e Gubbio. Ho sentito arcontare che quando il treno saliva sbuffando verso il Torrino andava così piano che c’erano passeggeri burloni e di certo giovani, che scendevano e si mettevano a correre per arrivare in cima prima ch’arrivasse e poi di corsa risaltavano a bordo.
Immagino che anche quella mattina la locomotiva, dopo un lungo fischio, lentamente si mosse.
“Citti, moh viene ‘l bello!” forse qualcuno disse.
La storia si ripeteva ancora una volta. Per generazioni di giovani Borghesi e delle campagne e montagne limitrove toscane quella linea ferroviaria secondaria era il cordone ombellicare col resto del mondo. La loro destinazione non era Fossato di Vico, ma chi c’andava mai? La loro destinazione era Arezzo, il distretto militare, la caserma non lontana dalla stazione. Seduti su quelle dure panche di legno di quel trenino che uno sconosciuto ironicamente aveva detto da operetta, erano accompagnati da timori, da paure, ma di certo c’er’anche curiositá ed eccitazione. Cercavano d’immaginare quello che il futuro aveva loro riservato. Giá sentivano la mancanza dei baci, delle carezze della ragazza ch’avevano lasciato piangendo sotto la pensilina, ma di certo contavano di trovarne altre. Giá sentivano la mancanza della sicurezza della famiglia e dell’affetto e dell’attenzioni della mamma, quella che avrebbe detto chissá quanti rosari implorando la Madonna e chissá quanti santi per un loro sano ritorno. E di certo avrebbe fatto anche un voto. Quando avrebbero riassaggiato quei mangiarini che solo lei sapeva preparare? Avevano giá sentito parlare del rancio servito in caserma. Il treno dopo aver passato il ponte di ferro sul Tevere, prendeva ‘l via, andava davvero a tutto vapore correndo parallelo alla Dritta d’Anghiari. Dopo questa fermata, e di certo salivano altri coscritti, girava sulla sinistra nella direzione di San Leo senza andarci e cominciava a sbuffare salendo verso Val de Gatti. Questo era il momento dell’ultimo sguardo sguardo verso la valle, verso le montagne dell’Appennino. Tutta una serie di gallerie buie e piene di fumo era una premonizione dei misteri che il futuro aveva riservato per loro, da quel momento era tutto da scoprire nel bene e nel male.
Credo che Luigi Fatti partì verso il 1890, aveva deciso d’andare in Sud Africa, aveva sentito dire ch’avevan trovato l’oro e tanti diamanti. Posso solo immaginare che iniziò questo incredibile viaggio con l’ “Appennino”, e lui ch’era giovane e coraggioso fu forse uno di quelli che si mise a far la corsa col treno salendo verso il Torrino. Il Borgo gli stava stretto, avevano bisogno di grandi spazi. Camillo Benci e sua moglie lo seguìrono. Come molti sanno il Fatti face i soldi e ne fece dimolti. Forse per dar prova del suo successo dopo trent’anni ‘artonnò, comprò la vecchia villa dell’Anghiarina e la rifece quasi tutta nuova, come se fosse una villa della campagna inglese. Quando quel giorno della partenza s’avviò lungo il viale della stazione c’era stata forse fra le sue speranze quella d’artonnare ‘n macchina, e con l’autista? Penso di no, anche perchè di macchine non ce n’era quasi nessuna.
E cosa avrá pensato Serafino Nofri (il nonno di Goliardo e di marco e di tanti altri), quando verso il 1895 parti per l’Abissinia? Forse i giovani coscritti in treno con lui avran cantato:
“O Menelik, la palle son di piombo e non pasticche!”
Lo zio Dante (il fratello della nonna Vittoria) fu richiamato, aveva vent’anni e non partì dal Borgo, lui stava ad Anghiari. Non so dove fu spedito, forse una guerra lontana e dimenticata. Andò tutto bene e venne il giorno del ritorno. Quali saranno state le sue emozioni perdute di quando aspettava il trenino per artornare a casa? Quello era l’ultimo giorno di carnevale. Di certo tutta la famiglia era in attesa quando scese dal treno e ci fu un tripudio generale. Quella sera ad Anghiari c’era un veglione e lui decise d’andare a festeggiare. Ci fu una rissa ed un calzolaio ch’aveva un trincietto in tasca l’accoltellò. Lo zio Dante morì proprio il giorno del suo ritorno, quella era stata l’ultima volta ch’aveva preso il treno.
Venne la guerra di Libia prima e poi la Grande Guerra, e tanti furoni i passi lungo il viale, tante furono le lacrime delle mamme, delle mogli e delle fidanzate. E non solo partivano quelli del vicinati ma anche quei soldati ch’eran venuti a Sansepolcro per l’addestramento e ch’erano accampati al Piazzone. In quel periodo lungo il viale, avevano costruito delle baracche di legno sulla sinistra, attaccate alle mura. Li alloggiavano i prigionieri austriaci, ungheresi, boemi e chissá da quale parte dell’impero austro-ungarico venivano. Anche loro, contadini della Stiria o pescatori della Dalmazia. avevano preso un piccolo treno locale come il nostro per raggiungere la caserma di smistamento, anche loro avevano lasciato genitori, fidanzate o mogli. Che strani destini incrociati, i nostri s’avviavano al treno ed uno dei loro ultimi sguardi era per quei prigionieri nemici che li guardavano da dietro i fili spinati. Son sicuro che non c’era odio, forse un po’ d’invidia. Si, era meglio esser prigioniero a Sansepolcro piuttosto che finire in una trincea sul Carso o traversare il letto secco e sassoso dell’Isonzo sotto Gorizia. Loro stavano per salire sul treno, mentre i prigionieri sarebbo saliti su dei camion che l’avrebbero portati a disboscare sopra Aboca.
Il cugino del babbo Domenico parti e non fece il viaggio di ritorno; così il nonno (dell’Aidi e d’Attilio) Ulisse, partito da Cercetole divenne artigliere e mori nell’altipiano d’Asiago solo pochi giorni prima dellafine della guerra. E come fosse stata un’orribile beffa la nonna Esterina seppe della sua morte il giorno che la guerra finì.
Il viaggio del nonno Barbino fu breve, lui si giustificava dicendo ch’era vecchio ed era dell’ultima classe (1874) richiamata, non andò lontano, dopo Arezzo lo mandarono alla Fortezza da Basso a Firenze e poi rimase in zona. Il nonno Taba (il babbo de la mi’ mamma perugino aveva uno stranissimo cognome) andò in trincea, ma dopo pochi mesi si ammalò e perse tutti i denti, era forse lo scorbuto? Chissá cosa avrá pensato la nonna Santina quando lo baciò per la prima volta quando lo vide scendera dal treno tutto sdentato. Tutte e due avevano trentasei anni.
Vennero altre guerre e partirono in tanti, chi andò in Abissinia, chi in Russia, chi in Albania e chissá dove. Molti non ritornarono e non ebbero l’emozione de rividere dopo la curva della collina di Val de Gatti la valle protatta dalla sue montagna che si apriva ai loro sguardi. Loro non sorrisero.
Non so la data esatta dell’ultimo treno che partì dal Borgo per Arezzo, penso che sia stato nel novembre del 1943, quando ci fu un gran bombardamento ad Arezzo. Un caro amico mi raccontò che lui prese proprio quel treno. Lui aveva vent’anni ed aveva risposto all’appello di Mussolini per il nuovo esercito repubblicano, e proprio quando arrivò alla stazione d’Arezzo le sirene cominciarono a fischiare e dopo poco le superfortezze volanti americane cominciarono a bombardare, colpendo anche la stazione. Si nascose nel cratere che un bomba aveva creato scoprendo una fogna. Proprio in quel buco incontrò un altro coscritto. Decisero di non presentarsi in caserma e si avviarono verso il Casentino e salirono in montagna e s’unirono ai ribelli, ovvero ad altri sbandati, disertori e prigionieri alleati fuggiti dai campi. Ancora non si chiamavano partigini. Nell’estate del ’44 divenne uno dei capi.
Quando il cugino Tonino ritornò nell’autunno del ’45 dalla prigionia nel nord della Germania scopri che l’ “Appennino” non c’era piú e prese la corriera.
E per concludere questa storia parliamo d’un’altra categoria di viaggiatori. Per molti giovani andare al casino ad Arezzo era un passo necessario per diventare grandi. Questi apprendisti, sempre accompagnati da uno grande, da un esperto s’avvivano lungo il viale per prendere il treno e colla fantasia correvano avanti, giá immaginando quello che sarebbe successo. Di certo c’eran tanti timori, timori di non essere all’altezza della situazione, di fare una brutta figura. In tasca avavano i soldi risparmiati per quell’incontro memorabile. I grandi davano consigli, suggerimenti di come mantenersi calmi e di non essere supereccitati e ridurre il tutto a pochi secondi. Poi c’era il ritorno e gli amici volevan saper tutto.
Fu la legge Merlin che pose fine a questi viaggi nel 1958 e non la mancanza del treno. La generazione dei giovani nel dopoguerra si organizzò, c’era sempre qualcuno che riusciva a trovare una macchina.
25 gennaio 2011, Marblehead, MA USA
I vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete! Fausto Braganti
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ottobre 28, 2013 alle 4:47 PM |
Caro Fausto ti saluto e ti ricordo grande goliarda “Princeps”, quando io, ancora una matricola, venni a Firenze nel lontano 1964. Poi ti rincontrai un’altra volta a Sansepolcro… Maurizio Smidt