090 M’Arcordo…quando i treni andavano a vapore.

 Io nell’ “Appennino” ci so’ montato, ma ‘sta volta ‘n me n’arcordo, ero troppo picino. Penso che avevo poco piú d’un anno (1942) e i miei me portarono da un gran dottore ad Arezzo, viaggio di due ore, perchè piangevo sempre. Questo scopri ch’avevo un’infezione all’orecchio sinistro e così so’ armasto ‘n po’ sordo.

Manifesto del 1905

 

Il primo ad esser coinvolto con la Ferrovia Appennino Centrale fu il bisnonno Valentino Laurenzi, quello del Monte Santa Maria, ma di questa storia ne son ben poco. Lui era invalido di guerra, era stato ferito durante la Terza Guerra d’Indipendenza (1866, aveva fatto anche la Seconda, con Cialdini e non con Garibaldi) e pertanto oltre alla pensione gli era stata data la concessione dell’appalto del Sale e Tabacchi del Monte. Ma perchè poi lasciò questo incarico per andare a fare il casellante dalle parti di Citerna (forse il casello del Sasso?) rimane un mistero. So solo che la mi’ nonna Vittoria, quand’era ancora ‘na cittina, spesso doveva andare con la lanterna in mano ad ispezionare i binari presto al mattino, anche d’inverno al buio e con tanto freddo, e poi c’erano le gallerie e lei aveva paura e per questo se portava dietro ‘na serella più picina, tutto questo prima che passasse ‘l primo treno.

Poi in casa si parlava spesso dell’Appennino, anche perchè lo zio Angiolo (il fratello grande del babbo) dopo il servizio miltare nel Genio Ferrovieri a Firenze era andato a lavorare con la F.A.C. Lo zio aveva cominciato dalla gavetta ed era infine diventato capostazione..Con questo precedente in casa non si parlava solo di pasta, il babbo lavorava alla Buitoni, ma si parlava anche di treni e sopratutto era mandatorio esser sempre puntuali. Arrivare a cena con cinque minuti di ritardo era la fine del mondo. Il mi’ babbo portava a casa vecchi orari ferroviari e quando avevo 12 o 13 anni cominció a farmi  fare i compiti. Per esempio: devo partire da Cuneo nel pomeriggio di lunedi dopo le 15:30 per andare a Bari. Ma mi devo fermare per lavoro un giorno a Livorno. Ed io dovevo trovare i treni migliori per questo itinerario e lui controllava, in ogni modo divenni bravino. Pensate che forse il mi’ babbo fosse un po’ sadico?

In casa arcontavano anche che lo zi’ Angiolo era un telegrafista velocissimo, ma io non l’ho mai visto battere. Si diceva che lui riuscisse a decifrare il messaggio dal ticchettio, non aveva bisogno di leggere il nastro coi puntini e le liniette. Raccontavano anche che lui giocava a scacchi col telegrafo. Credo che fosse ai tempi (fine anni ’20) che stava a Trestina ed allora senza televisione e tanto meno l’internet, lo zio si faceva delle gran belle partite a scacchi col capostazione d’Umbertide. Poi, proprio grazie a questo suo lavoro, incontró una maestrina di Gubbio che poi divenne la mi’ zia Tecla. Fu un amore ferroviario, su e giù con la F.A.C. Credo che smise di giocare a scacchi.

Dopo i bombardamenti del ’43 che colpirono la stazione d’Arezzo, questa linea secondaria non fu mai piú rimessa in servizio anche se le proposte di farlo furono tante, e lo zio si trovò disoccupato. In compenso gli era rimasta l’abitazione al secondo piano della stazione ferroviaria di Gubbio, il suo ultimo posto di lavoro. E quando da piccolo andavamo a travorlo c’erano ancora un paio di vagoni abbandonati proprio li davanti. Mi facevo dare la chiave e mi piaceva salire a bordo e giocavo da solo a fare il viaggiatore. Mi sedevo sulle dure panche di legno di quel vagone immobile ed abbandonato e sognavo d’andare lontano, molto lontano, senza muovermi. Ma questo mi sembra d’averlo giá arcontato, scusate se mi ripeto.

Fra le storie raccontate ‘n casa c’era anche quella della Marcia su Roma con nel treno pieno di Camice Nere pronto a partire c’era anche il mi’ babbo. Comparve all’improvviso la nonna Vittoria, fece scendere il babbo diciottenne e lo riportò a casa, l’umiliazione fu grandissima. Ma quendo un paio d’anni dopo arrivò la chiamata di leva non potè far nulla ed il babbo partì col trenino per andare in Libia: il viaggio dalla Val Tiberina alla costa della Cirenaica fu lungo.

 
 
 

 

 

 

‘l mi’ babbo raccontava anche d’un’epica e memorabile cena (penso fosse il 1927) che durò tutta ‘na nottata al ristorante Roma, era per la Via Maestra vicino al Caffe di Trecento (questo poi divenne l’Appennino). Fu la cena d’addio degli amici borghesi ad un gruppo di coetani, non so quanti fossero, che avevano deciso d’andar a cercar fortuna in Argentina. Al mattino tutti assiemi, quelli ch’armanevano e quelli che partivano, quasi tutti ‘mbriachi, s’avviarono cantando verso la stazione, per prendere ‘l primo treno per Arezzo. Quelli piú sobri buttorano a bordo gli emigranti, quella era la prima tappa d’un lungo viaggio. Negli infiniti e strani misteri dei sentieri incrociati della vita incontrai uno di questi avventurosi, Gigi Antonelli, a Londra. Non solo mi disse ch’era stato in Libia col mi’ babbo, ma che  lui quella sera non si ubriacò e che infatti fu proprio lui il pastore che portò gli agnelli sbandati fino al porto di Genova senza perdersi.

Forse avevo setto o otto anni quando vidi un treno vero per la prima volta;  un giorno d’estate a Rimini ne prendemmo uno che ci portò fino a Riccione, e non capisco il perchè, il filobus era comodissimo. Certo non fu gran che di viaggio, ma m’arcordo benissimo della locomotiva a vapore che sbuffava e faceva un gran fumo. Il vagone era come uno di quelli della stazione di Gubbio, vecchio e con le panche di  legno, ma c’era un’enorme differenza: questo si moveva, questo m’avrebbe portato in un posto. Vedevo le case, gli alberi, i pali della luce che correvano veloci, e questo mi piaceva, purtroppo il viaggio duró poco.

A Sansepolcro dopo guerra c’era un bel viale ampio ed alberato che nessuno chiamava Vittorio Veneto, ed in fondo, con un grande spiazzo davanti, c’era la stazione, uguale ed identica a quella di Gubbio, ma non c’erano treni che andavano o venivano. L’unica attivitá era il barrettino di lato ch’era rimasto aperto. Era uno dei luoghi preferito dai giovanissimi che volevan comprare sigarette di nascosto e non esser scoperti.

In un binario morto c’era una locomotiva a vapore abbandonata, mi sembra fosse una Westinghouse, ma come era finita li?

Si parlava sempre di ricostruire la linea, di riportare i treni, ma poi non succedeva mai niente.

Un giorno comparve al Borgo lo zio Angiolo con altri signori molto seri in giacca e cravatta. Lo zio sussurró al babbo che eran venuti a comprare le rotaie e tutto il materiale ferroso della F.A.C.

Il babbo sconsolato disse:

“ ‘sta ferrovia non s’arfá”!

Ma poi al babbo venne un’idea: aveva letto in una qualche rivista specializzata sull’alimentazionedi come si potevano coltivare i funghi in luoghi bui ed umidi. Perchè non farlo in una delle gallerie abbandonate? Parló con lo zio, cercarono di prenderne in affitto una, ma le cose si complicarono e non successe nulla. Era circa il 1950-51.

In compenso rifecero un caffè: il Caffè Appennino. Non m’arcordo a chi venne l’idea ma verso il 1950 qualcuno rilevó il vecchio Caffe di Trecento ch’era un’istituzione, ma ho solo vaghi ricordi. I tempi eran cambiati ed il nuovo proprietario volle rimedernizzarlo, ci mise anche un bel biliardo e colpo di genio: proprio sopra l’ingresso sulla facciata del rinascimantale palazzo Alberti ci fece mettere una gran insegna al neon, ch’era l’ultimo grido di modernitá, con la scritta Caffè Appennino. E sen non bastasse sopra la scritta ci face mettere una gran locomotiva con tanto di fumo e che usciva da una galleria, il tutto sempre al neon. Mi pareva una cosa meravigliosa, all’americana, come si vedevano nei film. Io mi posso solo giustificare col fatto che avevo nove anni, ancora non avevo sviluppato la mia idea di pacchianeria.

Gerasmo, gestore del caffe di fronte, non fu da meno. Doveva provvedere subito, anche lui aveva bisogno della sua insegna e fece installare tre grandi stelle a cinque punte, sepre al neon, che dal muro si protudevano verso la strada. Ero contento quando i miei portavano a prendere il gelato, Gerasmo lo faceva fresco ed era buonissimo. Quella era pura felicitá: seduto ai tavolino mi sentivo inondato come fossi sotto una doccia di luce, e da lontano nel muro di fronte ammiravo quell’insegna del treno luminoso. Se l’avessi saputo avrei detto:

“Mi sembra d’essere a Las Vegas!”

Quelle insegne, e non so perchè, non durarono molto. Sparirono e nessuno ne senti la mancanza. Al Borgo quello che mancava era il treno e mancó per quasi tredici anni.

Poi un giorno, il 16 maggio del 1956 (lo so solo perchè è scritto nel dietro della fotografia), dopo anni di lavori per ricostruire la ferrovia da Perugia al Borgo, finalmente arrivo il treno, o meglio per esser precisi arrivó ‘na “littorina” che a dir la veritá non è un vero treno. È piuttosto una specie di grande autobus con le rote de ferro che corre sulle rotaie e se ferma ogni dieci minuti.

 
 
 

 

 

 

 I  vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete! Fausto Braganti      

 ftbraganti@verizon.net 

Facebook: Fausto Braganti

Skype:       Biturgus (de rado)

 27 gennaio 2011, Marblehead, MA USA

1956-05-16 prima littorina a Sansepolcro

Ed io con i miei inseparabili amiconi Paolo Salvi e Sergio Fiordelli e l’immancabile Gastone Dindelli, meglio conosciuto come ’l Lili, che sempre s’univa a noi mi feci far la foto per immortalare questo evento eccezional

 

il "trenino" forse a Citta' di Castello

 

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