096a M’Arcordo…quando facevo l’autostop (1964)
Ho già arcontato la prima volta che feci l’autostop nell’estate del 1963.
Diciamo che quella era stata un prova, una piccola prova, ancora non ero mai andato da solo fuori dall’Italia: varcare il confine sarebbe stato il segno della vera avventura, quella sarebbe stata la prova del fuoco. Era già sortito, a Nizza con la gita del liceo e a Barcellona coi Balestrieri. Erano viaggi organizzati, m’ero sentito protetto dal gruppo stesso con cui viaggiavo: ’sta volta sarei stato da solo in terra straniera. Non c’era ancora l’Unione Europea, e tanto meno si parlava di globalizzazione, dovevamo avere il passaporto ed ogni confine era una cosa seria e spesso con lunghe attese. La Francia credo fosse l’unica eccezione, dal 1961, mi pare, bastava la patente di guida. Per i giovani dell’età di leva c’era un ulteriore complicazione, il passaporto veniva lasciato con una validità di tre mesi, dopo aver ottenuto un nulla osta del distretto militare. Insomma i paesi stranieri eran davvero stranieri.
Quell’anno c’era già stato il gran passaggio da Farmacia a Scienze Politiche e anche questa l’ho arcontata. Di sicuro pensavo solo che non avrei lavorato dietro un banco, ma per il resto non avevo nessun’idea di quello che avrei fatto con una laurea da politologo, ovvero quello che avrei voluto fare da “grande”.
Poi a lavorare dietro ad un banco ci andai lo stesso e ci rimasi per ben più di due anni, lavorando all’Alitalia all’aereoporto di Boston, ma questa è un’altra storia.
Mi ero iscritto all’assaciazione degli Ostelli della Gioventù e con la tessera veniva un libro con la lista di tutti gli ostelli d’Europa. Spesso lo sfogliavo e sognavo tutti quei posti lontani che dove sarei voluto andare. Scoprì anche che ce n’era uno all’Abetone e forse per fare un po’ d’allenamento un sabato mattina di febbraio, avvolto nel mio rotolò, decisi d’andarci a passare un week-end facendo l’autostop. A quei tempi in generale era facile avere un passaggio. Io non sciavo e mi accontentai a fare delle gran passeggiate per sentieri innevati.
Ma quale sarebbe stata la mia destinazione? Alcuni mi dissero d’evitare la Francia, perchè i francesi avevano la nomea di non dar passaggi, sarebbe stato duro. Poi d’improvviso, quando vidi la foto di Kirsten, non ci furono più dubbi: sarei andato in Danimarca. Kristen era bella, bionda e quel vestitino fiorito, leggero e un po’ strettino le stava così bene e la mia fantasia, che correva veloce, m’aveva già portato fino a Copenhagen.
Con l’iscrizione all’associazione degli Ostelli della Giventù ricevevo ogni mese una rivista e in questa c’era sempre una lista di altri giovani associati che volevono diventari amici per corrispondenza (pen-pal). Appena vedevo il nome d’una ragazza scandinava, io le scrivevo e fu così che conobbi, per posta, Kirsten. Lei era stata l’unica a mandarmi una foto, e questa tolse ogni possibile dubbio.
E arrivò il giorno, o meglio la sera, della partenza (domenica 5 luglio), ed il babbo m’aveva procurato il primo passaggio dal Viale della Stazione al Borgo fino a Milano con un camion dei Vannini. Questa volta non ero solo, all’ultimo momento Giuliano Cesarini m’aveva chiesto di venire con me. Lui voleva raggiungere il Gioffre (Roberto Belli) che già si trovava a Kassel (mi pare). Credo che anche questo viaggio, ma anche di questo non son sicuro, era motivato dalla ricerca di certe ragazze tedesche conosciute a Rimini l’estate precedente: les femmes fatales!
Partimmo con due camion differenti e ci ritrovammo al mattino alla rimessa Vannini alla periferia di Milano, e da li cominciò la vera avventura con lo zaino in spalla. Era caldo.
Non m’arcordo molto di come arrivammo a Chiasso, e l’ultimo passaggio italiano ci lasciò non lontano dal confine ed entrammo in Svizzera a piedi. Era verso mezzogiorno ed era ancora più caldo. Camminando per il paese, con lo zaino in spalla, eravamo tutti sudati; e fu allora che vedemmo un gran cartello che ci indicava dov’era la piscina comunale. Ci avviammo speranzosi d’una nuotata rinfrescante.
“Siete italiani? Qui non è permesso l’ingresso agli italiani.”
Questa fu la categorica ed ostile affermazione del guardiano ticinese che montava la guardia all’ingresso. Nella sua voce c’era un marcato senso di disprezzo nei nostri confronti.
“Andate via!”
Fu come un cazzotto in faccia. Per la prima volta sentii cosa volesse dire esser vittima di pregiudizi, esser ostracizzato ed umiliato solo perchè ero differente, perchè non ero uno di loro.
M’arcordo solo che ci allontanammo, non m’arcordo i nostri commenti, forse rimanemmo in silenzio, scioccati. Invece m’arcordo benissimo che sentivo d’entro di me una gran rabbia come credo non aver mai sentito, ero la vittima d’un’ingiustizia.
“Ma voi che italiani siete? Venite da nord o sud di Roma?”
Sentimmo gridarci dietro dal guardiano. Sorpresi ci girammo e non m’arcordo chi di noi rispose:
“Veniamo da nord di Roma, siamo toscani.”
“Toscani! Allora venite, vi faccio entrare.”
E noi ci allontanammo senza accettare quell’invito e senza neanche rispondere. Sarebbero passati anni prima che vedessi “Pane e cioccolata” e anche se non son mai stato un emigrante in Svizzera credo d’essermi sentito più vicino della media al povero Manfredi.
Viaggiando s’impara anche quello che non vorremmo sapere.
Con vari passaggi arrivammo a Biasca, dopo Lugano e Bellinzona, dove il mio fedele libro mi diceva che c’era un ostello della gioventù. Questo è piccolissimo paese all’inizio d’una stretta valle con una ripida china sale fino al passo del San Gottardo, ancora non c’era la galleria. La serata era fresca e la veduta della valle bellissima, e dietro di noi i massicci contrafforti delle Alpi. Fra i giovani che incontrammo quella sera c’era uno scozzese dalla gran barba rossa. Veniva da Israele e aveva traversato Libano e Turchia e poi tutti Balcani e tornava a casa. Avevo sempre una grande ammirazione per uno come lui: un vero autostoppisto. Mi parlò con entusiasmo del vero comunismo del kibbutz dove aveva lavorato per tre mesi. Poi si inferocì contro l’Unione Sovietica, la vera traditrice del comunismo. Poi ci fu che cominciò a cantare e mi sembrò giusto il mio intervento, quello era il luogo ideale per intonare “Addio Lugano bella …” di certo quegli anarchici eran passati per Biasca, almeno io volevo credere.
Poi in quell’ostello feci un’altra scoperta: il gran lettone, ovvero avrei dormito in letto comune. Nella camerata non c’erano brande, ma un lungo tavolato che copriva tutta la lunghezza d’un muro. C’erano dei materassini simili a quelli di gomma gonfiabili da campeggio, che sembrano dei lunghi salamini attaccati. Poi quando ne presi uno per allienearlo con gli altri scoprii ch’era pesantissimo, non era di gomma e non era gonfiabila, ma di tela pesante e riempito di chicchi di grano. Avevo la mia coperta e quando mi sdraiai scopri che non erano niete male, i semini si muovevano e si adattavano all’anatomia del corpo.
Viaggiando s’impara.
Al mattino partimmo presto, volevamo esser per strada per fare l’autostop prima degli altri. C’è concorrenza fra gli autostoppisti. Uscimmo dal paese e ci posizionammo sperando che qualcuno ci prendesse: la destinazione della giornata era Zurigo, dopo aver fatto il San Gottardo ed esser sceso dall’altra parte. Ma si mise subito male, rimanemmo forse un’ora ad aspettare invano, m’arcordo solo che nessuno si fermava. Allora decidemmo di divederci: Giuliano si sarebbe avviato ed aspettato dietro la curva. Se un’anima gentile m’avesse dato un passaggio ero sicuro si sarebbe poi fermata per arcattare anche il mio amico. Se per qualche ragione ci fossimo separati decidemmo che l’appuntamento sarebbe stato all’ostello di Zurigo. Questa era la mia ottimistica teoria. E Giuliano s’allontanò e sparì dietro la curva … e l’avrei arvisto al Borgo dopo più d’un mese.
Non aspettai molto e d’improvviso comparve una gran macchina americana rossa, e miracolo: si fermò! Un distinto signore mi invitò a salire. Era una Chevrolet Malibu, ma perchè m’arcordo ancora quel nome? Semplice, per quattro o cinque ore sedetti in quella macchina e lessi quel nome sul cruscotto e mi sembrava cosi seducente. Poi per una strana circostanza della vita dieci dopo, qui negli Stati Uniti, ne ho avrei avuta una anch’io, anzi due. Quella era di certo una delle primissime in circolazione, infatti quello era stato il primo anno di produzione. E pensare che una era arrivata fino a Biasca per darmi un passaggio. Ero contentessimo, il sedile era comodo ed ampio, specie per me abituato alla Cinquecento.
Quando abbiamo girato la curva e contavo di vedere Giuliano e m’ero già preparato per fare il discorso perorando la causa dell’amico, scoprì che la strada era deserta, non c’era nessuno, era sparito, ma dove era andato? Ma forse aveva trovato un passaggio prima di me?
Quel signore mi disse che la sua destinazione era Basilea e se volevo sarei potuto andare con lui, solo che si doveva fermare per circa un ora in una cittadina lungo la strada. Quello si ch’era un passaggio favoloso: mi permetteva la traversata di tutta la Svizzera, dove non prevedevo di fermarmi, portandomi al confine della Germania e questo andava bene con il mio piano di raggiungere la Danimarca il più presto possibile.
Salendo cominciò a far freddo e dopo aver acceso il riscaldamento all’altezza del passo, nel pomeriggio provai l’emozione dell’aria condizionato quando riscendemmo a valle; dalle parti di Lucerna faceva molto caldo. Non ho gran ricordi del resto del viaggio, ci fu la fermata di cui aveva parlato, poi ci invitò anche a pranzo in una trattoria vicino ad un laghetto ed infine ci lasciò davanti alla porta dell’ostello di Basilea.
Non m’arcordo molto di questa permanenza eccetto che con un fiorentino conosciuto all’ostello passai una giornata al porto fluviale sul Reno cercando invano di trovare un passaggio su una chiatta, sarebbe stato bello scendeva il fiume. Ma nessuno ci volle, dovevamo essere inscritti ad un sindacato.
L’indomani partimmo prestissimo dall’ostello, forse erano le cinque. Una delle regole nel manuale dell’autostoppista dice di non cercare un passaggio in città: così prendemmo un tram direzione nord. Arrivati il capolinea non c’era altro da fare che camminare per raggiungere il confine con la Germania che è alla periferia di Basilea. Camminammo lungo un gran viale alberato, totalmente deserto, non c’era proprio nessuno. Ad un crocevia trovammo un semaforo rosso e dopo aver visto che non c’era nessuna macchina in vista decidemmo di traversare la strada, non l’avessimo mai fatto! Una donna cominciò a berciare dal balcone d’una casa sull’angolo sgridandoci per quello che stavamo facendo. Io il tedesco non lo parlo, ma capii “rot” e non ci voleva molto per capire perchè s’era così arrabbiata. Avevamo commesso un’infrazione tremenda: avevamo traversato la strada col rosso! Avevamo rotto le regole del paese!
Era l’ora di lasciare la Svizzera, anche se proprio un svizzero m’avevo dato il più bel passaggio della mia carriera.
Decidemmo di separarci dopo il confine, già c’era gente con il pollice alzato. Non m’arcordo che mi prese all’inizio e per la prima volta mi trovai in Germania, percorrendo la famosa autobahn voluto da Hitler, quella che speravo m’avrebbe portato fino ad Amburgo. Erano i tempi della Guerra Fredda e la Germania era ancora divisa e c’era il Muro di Berlino. Gli alleati, che poi credo fossero solo gli Americani, temevano sempre un improvviso attacco da parte dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati. All’improvviso vidi un lungo convoglio militare che correva lungo l’autostrada, e quello fu il primo di tanti che avrei visto nei giorni successivi. Qualcuno mi disse che questi convogli si muovevano in continuazione, ventiquattrore su ventiquattro, sempre protti a sventare un attacco a sorpresa. Quello che mi icuriosì era che sul tetto al centro della cabina c’era una botola e da questa spuntava un soldato con l’elmetto, in piedi al livello della vita, ed un gran binocolo che scrutava in tutte le direzieni e pronto a gridare:
“The Russians are coming, the Russians are coming!”
Si mise a piovere e mi misi sotto un sottopassagio. Fra gli autostoppisti c’è la credenza che la pioggia porta fortuna. I passanti presi da compassione sono più proni ad affrir passaggi e forse c’è del vero. Non attesi molto ed una macchina con attaccata una roulotte si fermò, c’era una coppia che ritornava dalla vacanza a Rimini. Eran tutti contenti, l’Italia era il loro posto preferito e così via.
Ad un certo punto una macchina ci superò lentamente, andava appena un po’ più veloce di noi. Io ero seduto dietro l’autista e con mia gran sorpresa, ed è dir poco, vidi nell’altra vettura l’inconfodibile profilo di Virgilio Castellini. Aprii il finestrino e cominciai a gesticolare per attirare la sua attenzione, intanto cercavo di spiegare ai miei aspiti che io lo conoscevo. Alla fine Virgilio si girò e immaginate la sua faccia, esterrefatto è dir poco! Ci fermammo nella corsia di sicurezza e quando scendemmo riconobbi anche Paolo Valentini, ch’era alla guida e mi sembra ci fosse un altro, ma non m’arcordo chi fosse. Mi dissero che andavano ad Amsterdam, forse avevano degli obbiettivi simili ai miei. Mi invitarono ma io decisi di continuare nella mia direzione.
Anche la coppia tedesca sembrava sorpresa e contenta per questo fortuito incontro e ci vollero assieme per farci la fotogrofia. Io questa non ce l’ho. Forse in un cassetto, in una casa lontana, c’è l’immagine di quattro Borghesi, al margine dell’autostrada nel mezzo della Germania, ma per chi la vede son solo degli sconosciuti.
PS: al mio ritorno il mistero della sparizione di Giuliano fu facile da risolvere: gli scappava la pipi e decise d’andare dietro un cespuglio proprio quando noi siam passati.
13 aprile 2011, Marblehead, MA USA
I vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico Borghese. Fausto Braganti
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