‘na volta l’omini se mettevano ‘l cappello, e io me ne son messi tanti e li metto anche de ‘sti tempi, quando dicono che n’é più de moda; e mentre scrivo st’Arcordo c’ho un basco ‘n testa, qui ‘l freddo è arivato e me gnene caldo.
Chi mi conosce lo sa giá che a me piacciono i cappelli e che li porto. Sono stato chiamato The Mad Hatter (il Cappellaio Pazzo, quello di Alice, che l’ incontra nel Paese delle Meraviglie). Ne ho comprati molti, in varie parti del mondo ed amici e conoscenti sapendo che mi piacciono me ne hanno regalati tanti. Conclusione: chi é stato a casa mia, sia qui a Marblehead o al Borgo ha visto cappelli dappertutto. Ce ne sono scatole piene in soffitta, credo che potrei allestire un piccolo museo. Nel soggiorno sopra uno scaffale di libri troneggia la berretta a tre punte, che é simile a quella dei cardinali, del vescovo Bornigia. Non l’ho rubata, fu un regalo d’un prete amico di famiglia. Vi posso solo dire che il vescovo aveva una gran testa. Credo che il pezzo più raro della mia collezione sia un elmo, con tanto di pennacchio bianco di peli di coda di cavallo, della cavalleria papalina. Nel fronte c’é un stemma d’ottone con la tiara e le chiavi di San Pietro. Credo dopo Pio IX e dopo la Breccia di Porta Pia, la cavalleria pontificia sia stata dissolta. Questo mi fu regalato proprio qui a Marblehead, chissá come ci é arrivato? Chi me l’ha dato non ne sapeva niente, eccetto che l’avevano trovato in casa.
Facciamo un passo indietro e ‘arcomincio n’altra volta col nonno Barbino, ‘l nonno birbo, che come ha suggerito Alfredo dovrei ribattezzarlo Birbino. Ve n’ho parlato altre volte e per me é spesso un buon punto di partenza. Lui portava sempre il cappello, ed era sempre nero con la tesa larga, e lo chiamava il “feltro” Quando diventava vecchio, macchiato di sudore e sformato ne comprava un altro uguale. Credo che venivano dal cappellificio del Valdarno, forse si chiamava Rossi? Lui diceva che si doveva sempre portarlo, d’inverno perché era freddo e d’estate per proteggersi dal sole. E le stagioni di mezzo? Non lo so, forse solo per non perdere l’abitudine. Al mattino lui si alzava prestissimo e girava per la casa col camicione da notte lungo fino ai piedi, la pipa o il sigaro in bocca e si metteva subito il cappello in testa, prima di vestirsi. Il nonno era tutto pelato, ma non era calvo. Andava tutti i giorni dal barbiere, quello davanti alla farmacia Galardi, per farsi radere, aveva l’abbonamento. Ed un paio di volte alla settimana gl’insaponavano il cranio e dopo poco era lucido come una palla da biliardo. Mi domando se anche allora chi se rapava voleva sembrare un duro. Molti non sapevano che era così perché teneva sempre il cappello.
Anche ‘l babbo portava sempre il cappello, anche se poi negli ultimi anni aveva optato per i berretti, e ne aveva diversi. Il suo preferito era uno di tweed, poi ho imparato che era tipico degli irlandesi. Ho ancora un paio dei suoi eleganti Barbisio grigi; ne avevo anche uno marrone chiaro, leggerissimo che in un momento di generoso ottimismo regalai ad una ragazza fiorentina, sperando così di facilitare il sentiero alla conquistarla. Lei si tenne il cappello; io ebbi un paio di baci di sfuggita, che per pochi secondi mi riempirono d’ottimismo, ma poi tutto finì li: niente conquista. Per uno di quei strani destini della vita, che io chiamo dei sentieri incrociati, riincotrai l’Alba trent’anni dopo ad una cena a New York, era diventata una signora elegante e raffinata ed era ancora molto bella. Mi venne tanta voglia di richiederle il cappello del mi’ babbo, ma poi non lo feci. ‘l babbo aveva anche una bombetta Borsalino, che lui chiamava tubino. Non gliel’ho mai vista in testa, e penso che forse non era la sua, qualcuno gliel’aveva regalata. Mi diceva che si doveva mettere quando s’indossava lo smoking. C’era stato anche un cappello da fascista, non il fez, ma uno di quelli con la visiera e l’aquilone. La mamma di sua iniziativa lo buttó nel forno della Pieve Vecchia all’inizio dell’estate del ’44. Io l’ho visto solo in fotografia, e per la prima volta solo l’anno scorso, grazie a Roberto che aveva artrovato ‘na vecchia foto de la su’ mamma “giovane italiana” e toh: c’era anche ‘l mi babbo. Questa é di sicuro n’altra storia.
Nel 1962 c’era ancora in Via degli Alfani, quasi all’incrocio di Via dei Servi, un negozio sempre scuro, dove un vecchio signore ancora metteva i cappelli in forma, li puliva e li riparava. Gli portai la bombetta del mi’ babbo e lui le ridiende un bel nastro di seta nuovo. Pochi mesi dopo chiuse. L’ospedale delle bambole in Via dell’Oriolo duró un po’ di più, ma non troppo. Questo fu forse una vittima dell’alluvione?
E come ho giá detto io portavo e porto il cappello, e penso d’essere uno de l’ultimi. Hanno cominciato a mettermi cuffie, berretti e baschetti sin da quand’ero picinino. Quando avevo circa 15 anni ‘l babbo mi portó nel negozio dalla cappellaia Rina Rossi, quella che aveva gli occhiali dalle lenti spessissime. Mi compró un cappello da grande, ed era di tipo sportivo: aveva un cordone invece del più tradizionale nastro di seta col fiocco appiattito sul lato sinistro. Quella sera camminai per la Via Maestra per farmi vedere. Ricordo che Fabio Boschi, ma lui era più grande, ne aveva uno come il mio. Per la Via Maestra, vicino al Bacci elettricista c’era il negozio della Sora Livia Giorni, la nonna di Bernado Monti, che é morta nel 1970. Questa era una sarta da donna, che rimasta vedova di Francesco Savelli cappellaio, aveva continuto la sua attivitá. Mi sembra d’arcordare che aveva sul banco un gran marchingegno, una forma di legno divisa in due parti semisferiche, dove si metteva il cappello, che poi girando una gran vite, si poteva allargare. Serviva per mettere in cappelli in forma e per far più comodi quelli un po’ stretti. La Sora Livia morì nel 1970, come mi ha ricordato suo nipote Bernardo, ed il negozio fu chiuso. Il negozio della Rina Rossi fu poi rilevata dalla Bianca Alberti che per anni lo ha mantenuto con orgoglio, sapendo che era uno degli ultimi, ma anche questo non c’è più. Al Borgo, come un po’ dappertutto, non ci sono negozi di cappelli; a Firenze ha chiuso anche il celebre Cambini in Via Calzaioli. Al Borgo ho visto un cappellaio ambulante che il giorno di mercato espone dei cappelli e berretti, ma non di gran qualitá.
Hanno chiuso anche i negozi di pipe. A Firenze ce n’erano due: Bongi e Corsellini e non erano tabaccherie, e vendevano solo pipe. Io devo essere proprio fuori moda: vado ancora in giro fumando la pipa con il cappello in testa. Se sparisco controllate per vedere se m’ hanno messo in una bacheca del Natural History Museum di New York, quella accanto all’uomo di Neanderthal.
Anche quì in America gli uomini non portano più il cappello, con qualche eccezione come nel sud, nel Texas. Penso che Stetson faccia ancora dei buoni affari con i suoi cappelli da cowboy; ci sono sempre i turisti che li comprano e poi tanto non li mettono. Si dice che fu il presidente Kennedy, che non portava cappello, a farlo passar di moda. Tutti volevan sembrar giovani ed aitanti incuranti del sole e della piaggia come lui. Ed un’intera industria crollò.
Non voglio trasformare questa memoria in un superficiale trattatello politico marxista di lotta di classe, ma…. quello che un uomo si metteva in testa era un chiaro distintivo di dove era nella scala sociale. Non c’era nulla di scritto, tanto meno regolamentazioni specifiche, ma ognuno sapeva che cappello mettere, questo era una affermazione, forse una codificazione del gruppo, della classe a cui appartenevi. Un operaio od un contadino non si sarebbero mai messi in testa un Borsalino od una Lobbia. Se l’avessero fatto nessuno avrebbe detto nulla, ma non era una cosa da fare e loro stessi non l’avrebbero fatto. Per loro un berreto ed anche un basco andavano belissimo oppure un feltro comprato alle Fiere di Mezza Quaresima
Al Borgo quelli c’erano quelli che andavano dalla Rina Rossi, lei aveva i cappelli di più alta qualitá. La Sora Livia aveva cappelli un po’ da meno. Ricordo che quest’ultima vendava anche ombrelli, quelli grandi d’incerato verde. I pecorai ci mettevano un filo e li portavano a tracolla come fossero uno schioppo.
I signori probailmente andavano dal Cambini a Firenze.
Quando ero ragazzo bombette e pagliette erano giá sparite. Solo il vecchio Giannini, il babbo di quelli che vendevano le radio, ogni tanto compariva verso Porta Romana, con la bombetta. Ad Anghiari c’era un signore che d’estate si metteva la paglietta, era sempre in giro per la piazza, ed aveva anche una giannetta di canna, ma non me ne ricordo il nome.
Ho visto questa moda perdurare molto di più a Londra, dove certe tradizioni son più dure a morire. Nell’estate del ’65, quando ci sono andato la prima volta, molti uomini, sopratutto gli impiegati, indossavano the bowler hat (bombetta). Solo tre anni dopo, quando mi ci son trasferito, ne notai un gran calo. In compenso me ne comprai una io. Andai da Lock in St. James Street, mi misurarono la testa con uno strumento che sembrava una creazione dell’Inquisizione, ed usci dal negozio un po’ come Alberto Sordi in “Fumo di Londra”. Per l’occasione avevo una camicia a righine con il colletto duro, inamidato. In una visita nel 1985 vidi un solo vecchio signore con la bombetta. Nella mia ultima visita del 2003 non ne ho visto nessuno. Ce n’erano di più a New York fino alla fine degli anni ’90. Qui molti avvocati ancora portavano la bombatta., anche questa un’altra prova della classe d’appertenenza.
Quando ero all’universitá si portava il goliardo a punta, con i vari colori a secanda della facoltá. Io di goliardi ne ho avuti due: uno rosso per farmacia che ho poi venduto per prenderne uno blue, quando son passato a scienze politiche. Alla fine poi l’ho messo poco perchè l’ordine goliardico a cui appartenva era il “Sacro e Privato Ordine del Cilindro”. Cosi noi ci si metteva la tuba. Ne avevo travata una, e ce l’ho ancora, inglese con il pelo in buone condizione, avevo anche la spazzola tonda per dare verso al pelo (la potete vedere nella foto dell beretta del vescovo). La fregatura è che il cilindro è passato di moda molto prima dei miei tempo. L’avrei portato tutti i giorni anche se non appartenevo alla classe giusta: mi faceva sentire più alto, ed io, considerando la mia altezza, ne avrei avuto bisogno.
Oggi forse non usiamo più i cappelli per identificare chi siamo, ma usiamo altri mezzi, per esempio le macchine, come vestiamo, dove andiamo in vacanza e così via.
Perchè mi piacciano tanto i cappelli? Per me ono pieni di memorie, di storia e la mia immaginazione mi porta lontano nel tempo e nello spazio. Poi senza voler autoanalizzarmi ci deve essere in me anche una parte di esibizionismo.
Mia moglie è insegnante d’arte al liceo e tre anni fa doveva dare un corso di pittura ad olio e dovava fare una prova e mi chiese se potevo posare per lei. Pensai subito che volevo essere un esploratore e scelsi un casco coloniale italiano. Pensando al mi’ babbo le chiesi di inserire Leptis Magna, l’antica cittá romana sulla costa della Libia. Poi le chiese metterci anche la Venere di Cirene, oggetto dei miei desideri di adolescente.
L’Africa mi ha sempre affascinato, avrei forse voluto essere stato un esploratore, ma son nato troppo tardi ed anche i caschi sono andati fuori moda. Un mercante indiano di Nairobi, che li vendeva nel suo negozio, mi consigliò di non metterlo in testa: come si dice oggi, era political incorect. Qualcuno mi avrebbe potuto dare una bastonata, nella migliore delle ipotesi. Così mi devo consolare di far l’esploratere nel quadro nel soggiorno.
E i cappelli delle donne? La storia simile a quella degli uomini. Credo che l’unica grande occasione che hanno oggi di sfoggiarne uno sia rimasta a qualche matrimonio.
La stratificazione di classe era molto ovvia anche per loro. Ed il detto della nonna di mia moglie Pascale, nata all’inizio del secolo e di famiglia operaia di Le Havre, sintetizza il tutto:
“Elle ne sort pas sans son chapeau, c’est une dame!”
(Lei non esce senza cappello, lei è una signora}
Con questo ve saluto e ve dico, come la mi’ mamma:
“Se è freddo mettite ‘l cappello, vedrai la differenza!”
20 novembre 2008, Marblehead, MA USA
I vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese. Mi raccomando, scrivete! Fausto Braganti
ftbraganti@verizon.net
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