Così sappiamo che, penso fosse nel 1924, anche Huxley prese il trenino dal Borgo per andare ad Arezzo e lo immortalò nella letteratura inglese. Quel suo libro “Along the Road” fu molto letto in quegl’anni fra le due guerre, sia in Inghilterra e sia negli Stati Uniti. Fu proprio il ricordo della lettura di questo capitolo che forse indusse il giovane ufficiale d’artiglieria inglese Anthony Clarke a smettere di cannoneggiare il Borgo dalla sua posizione dalle parti di Citerna, ma questa è un’altra storia e non centra proprio niente con questa.
Quella mattina, forse dopo aver dormito al Fiorentino, si avviò verso la stazione per continuare questa sua avventura da pioniere artistico alla scoperta d’un’Italia meno nota. Mi piace immaginare che lungo il viale si unì al mi’ babbo ventenne ed a tutto un gruppo di suoi coetani (classe 1904) che la grandi sfere militari avevano deciso di mandare a riconquistare la Libia. Era il marzo del 1924. Per molti quella tappa da Sansepolcro ad Arezzo era la prima volta che montavano in un treno. Per loro quello non era trenino da operetta, era una cosa seria. E ci fu anche chi non artonnò; ‘l mi’ babbo m’arcontava che uno infatti morì combattendo nel Fezzan, nel deserto ‘n fondo alla Libia. Ma come si fa a partire a vent’anni dal Borgo per sparire fra le dune del Sahara? E nessuno si ricorda piú il nome.
La locomotiva a vapore si tirava dietro i vagoni e correva su dei binari a scartamento ridotto, credo che la distanza fra le due rotaie fosse meno d’un metro. La Ferrovia dell’Appennino Centrale, era stata costruita alla fine dell’ottocento e collegava Arezzo con Fossato di Vico in Umbria; dopo esser passata per Anghiari, Sansepolcro, Cittá di Castello, Umbertide e Gubbio. Ho sentito arcontare che quando il treno saliva sbuffando verso il Torrino andava così piano che c’erano passeggeri burloni e di certo giovani, che scendevano e si mettevano a correre per arrivare in cima prima ch’arrivasse e poi di corsa risaltavano a bordo. Ma poi ‘sta storia sará’ vera?
Immagino che anche quella mattina la locomotiva, dopo un lungo fischio, lentamente si mosse.
“Citti, moh viene ‘l bello!” forse qualcuno disse.
La storia si ripeteva ancora una volta. Per generazioni di giovani Borghesi e delle campagne e montagne limitrove toscane quella linea ferroviaria secondaria era il cordone ombellicare col resto del mondo. La loro destinazione non era Fossato di Vico, ma chi c’andava mai? La loro destinazione era Arezzo, il distretto militare, la caserma non lontana dalla stazione. Seduti su quelle dure panche di legno di quel trenino che uno sconosciuto ironicamente aveva detto da operetta, erano accompagnati da timori, da paure, ma di certo c’er’anche curiositá ed eccitazione. Cercavano d’immaginare quello che il futuro aveva loro riservato. Giá sentivano la mancanza dei baci, delle carezze della ragazza ch’avevano lasciato piangendo sotto la pensilina, ma di certo contavano di trovarne altre. Giá sentivano la mancanza della sicurezza della famiglia e dell’affetto e dell’attenzioni della mamma, quella che avrebbe detto chissá quanti rosari implorando la Madonna e chissá quanti santi per un loro sano ritorno. E di certo avrebbe fatto anche un voto. Quando avrebbero riassaggiato quei mangiarini che solo lei sapeva preparare? Avevano giá sentito parlare del rancio servito in caserma. Il treno dopo aver passato il ponte di ferro sul Tevere, prendeva ‘l via, andava davvero a tutto vapore correndo parallelo alla Dritta d’Anghiari. Dopo questa fermata, e di certo salivano altri coscritti, girava sulla sinistra nella direzione di San Leo senza andarci e cominciava a sbuffare salendo verso Val de Gatti. Questo era il momento dell’ultimo sguardo verso la valle, verso le montagne dell’Appennino. Tutta una serie di gallerie buie e piene di fumo era una premonizione dei misteri che il futuro aveva riservato per loro, da quel momento era tutto da scoprire nel bene e nel male.
Credo che Luigi Fatti partì verso il 1890, aveva deciso d’andare in Sud Africa, aveva sentito dire ch’avevan trovato l’oro e tanti diamanti. Posso solo immaginare che iniziò questo incredibile viaggio con l’ “Appennino”, e lui ch’era giovane e coraggioso fu forse uno di quelli che si mise a far la corsa col treno salendo verso il Torrino. Il Borgo gli stava stretto, avevano bisogno di grandi spazi. Camillo Benci e sua moglie lo seguìrono. Come molti sanno il Fatti face i soldi e ne fece dimolti. Forse per dar prova del suo successo dopo trent’anni ‘artonnò, comprò la vecchia villa dell’Anghiarina e la rifece quasi tutta nuova, come se fosse una villa della campagna inglese. Quando quel giorno della partenza s’avviò lungo il viale della stazione c’era stata forse fra le sue speranze quella d’artonnare ‘n macchina, e con l’autista? Penso di no, anche perchè di macchine non ce n’era quasi nessuna.
E cosa avrá pensato Serafino Nofri (il nonno di Goliardo e di Marco e di tanti altri), quando verso il 1895 parti per l’Abissinia? Di certo non sapeva che in mezzo a quelle ambe c’era un posto che si chiamava Adua. Forse i giovani coscritti in treno con lui avran cantato:
“O Menelik, le palle son di piombo e non pasticche!”
Ma poi Serafino ‘l trenino lo prese ‘n’altra volta e ‘sta volta non era stato richiamato: lui socialista con i fascisti al potere decise ch’era meglio andarsene e e decise d’andare in Francia, a Nancy. Era diventato un rifugiato politico.
Lo zio Dante (il fratello della nonna Vittoria) fu richiamato, aveva vent’anni e non partì dal Borgo, lui stava ad Anghiari. Non so dove fu spedito, forse una guerra lontana e dimenticata. Andò tutto bene e venne il giorno del ritorno. Quali saranno state le sue emozioni perdute di quando aspettava il trenino alla stazione d’Arezo per artornare a casa? Quello era l’ultimo giorno di carnevale. Di certo tutta la famiglia era in attesa quando scese dal treno e ci fu un tripudio generale. Quella sera ad Anghiari c’era un veglione e lui decise d’andare a festeggiare. Ci fu una rissa ed un calzolaio ch’aveva un trincietto in tasca l’accoltellò. Lo zio Dante morì proprio il giorno del suo ritorno, quella era stata l’ultima volta ch’aveva preso il treno.
Venne la guerra di Libia prima e poi la Grande Guerra, e tanti furoni i passi lungo il viale, tante furono le lacrime delle mamme, delle mogli e delle fidanzate. E non solo partivano quelli del vicinati ma anche quei soldati ch’eran venuti a Sansepolcro per l’addestramento e ch’erano accampati al Piazzone. In quel periodo lungo il viale, avevano costruito delle baracche di legno sulla sinistra, attaccate alle mura. Li alloggiavano i prigionieri austriaci, ungheresi, boemi e chissá da quale parte dell’impero austro-ungarico venivano. Anche loro, contadini della Stiria o pescatori della Dalmazia. avevano preso un piccolo treno locale come il nostro per raggiungere la caserma di smistamento, anche loro avevano lasciato genitori, fidanzate o mogli. Che strani destini incrociati, i nostri s’avviavano al treno ed uno dei loro ultimi sguardi era per quei prigionieri nemici che li guardavano da dietro i fili spinati. Son sicuro che non c’era odio, forse un po’ d’invidia. Si, era meglio esser prigioniero a Sansepolcro piuttosto che finire in una trincea sul Carso o traversare il letto secco e sassoso dell’Isonzo sotto Gorizia. Loro stavano per salire sul treno, mentre i prigionieri sarebbo saliti su dei camion che l’avrebbero portati a disboscare sopra Aboca.
Il cugino del babbo Domenico parti e non fece il viaggio di ritorno; così il nonno (dell’Aidi e d’Attilio) Ulisse, partito da Cercetole divenne artigliere e mori nell’altipiano d’Asiago solo pochi giorni prima della fine della guerra. E come fosse stata un’orribile beffa la nonna Esterina seppe della sua morte il giorno che la guerra finì. Il 4 novembre per lei non fu il giorno della Vittoria.
Il viaggio del nonno Barbino fu breve, lui si giustificava dicendo ch’era vecchio ed era dell’ultima classe (1874) richiamata, non andò lontano, dopo Arezzo lo mandarono alla Fortezza da Basso a Firenze e poi rimase in zona. Il nonno Taba (il babbo de la mi’ mamma perugino aveva uno stranissimo cognome) andò in trincea, ma dopo pochi mesi si ammalò e perse tutti i denti, era forse lo scorbuto? Chissá cosa avrá pensato la nonna Santina quando, dopo esser sceso dal treno, lo baciò per la prima volta e trovò quella bocca sdentata. Tutte e due avevano trentasei anni.
Vennero altre guerre e partirono in tanti, chi andò in Abissinia, chi in Russia, chi in Albania e chissá dove. Molti non ritornarono e non ebbero l’emozione de rividere dopo la curva della collina di Val de Gatti la valle protatta dalla sue montagna che si apriva ai loro sguardi. Loro non sorrisero.
Non so la data esatta dell’ultimo treno che partì dal Borgo per Arezzo, penso che sia stato nel novembre del 1943, quando ci fu un gran bombardamento ad Arezzo. Un caro amico mi raccontò che lui prese proprio quel treno. Lui aveva vent’anni ed aveva risposto all’appello di Mussolini per il nuovo esercito repubblicano, e proprio quando arrivò alla stazione d’Arezzo le sirene cominciarono a fischiare e dopo poco le superfortezze volanti americane cominciarono a bombardare, colpendo anche la stazione. Si nascose nel cratere che un bomba aveva creato scoprendo una fogna. Proprio in quel buco incontrò un altro coscritto. Decisero di non presentarsi in caserma e si avviarono verso il Casentino e salirono in montagna e s’unirono ai ribelli, ovvero ad altri sbandati, disertori e prigionieri alleati fuggiti dai campi. Ancora non si chiamavano partigini. Nell’estate del ’44 divenne uno dei capi.
Quando il cugino Tonino ritornò nell’autunno del ’45 dalla prigionia nel nord della Germania scopri che l’ “Appennino” non c’era piú e prese la corriera.
E per concludere questa storia parliamo d’un’altra categoria di viaggiatori. Per molti giovani andare al casino ad Arezzo era un passo necessario per diventare grandi. Questi apprendisti, sempre accompagnati da uno grande, da un esperto s’avvivano lungo il viale per prendere il treno e colla fantasia correvano avanti, giá immaginando quello che sarebbe successo. Di certo c’eran tanti timori, timori di non essere all’altezza della situazione, di fare una brutta figura. In tasca avavano i soldi risparmiati per quell’incontro memorabile. I grandi davano consigli, suggerimenti di come comportarsi e mantenersi calmi, importante era di mantenere la calma e di non ridurre il tutto a pochi secondi. Poi c’era il ritorno e gli amici volevan saper tutto. E c’erano quelli che non ci sarebbero mai artornati, la loro era stata solo squallida esperienza, anche se quel treno facevano i gradassi.
Fu la legge Merlin che pose fine a questi viaggi nel 1958 e non la mancanza del treno. La generazione dei giovani nel dopoguerra si organizzò, c’era sempre qualcuno che riusciva a trovare una macchina.
Post Scriptum:
Marco Nofri, dopo aver letto questo M’Arcordo… mi ha ricordato ‘na storia che m’ero scordato. Il su’ babbo Tullio, dopo una lunga prigionia, come tanti altri arrivó ad Arezzo ed ebbe la triste sorpresa di scoprire che il trenino non c’era più. Non so con quale altro mezzo face l’ultimo pezzo di quella sua odissea, ma giunto a Val de Gatti, quando tutta l’ Alta Valle del Tevere gli si aprì d’avanti, ne ebbe un’altra, ancora più triste. La gioia d’avercela fatta venne turbata da un’inaspettata veduta: non c’era più la Torre di Berta che dominava sopra i tetti rossi del suo Borgo!
25 gennaio 2011, Marblehead, MA USA
Facebook: Fausto Braganti
Skype: Biturgus (de rado
gennaio 26, 2011 alle 4:58 am |
Caro Fausto,
era un bel pezzo che non aprivo la posta ed ho potuto, adesso leggere i tuoi ultimi m’arcordo, oltre che del lutto di cui mi hai informato e di cui mi dispiaccio tanto per te e soprattutto per tua figlia così affezionata alla nonna, è vero che l’amore, di qualsiasi genere, non ha età.
Peraltro desidero commentare il tuo m’arcordo sul trenino che andava dal Borgo ad Arezzo, ma non solo, come tu con precisione ricordi.
In effetti la linea era Arezzo Fossato di Vico, come testimonia un manifesto della stessa che ho potuto ammirare una decina di giorni fa in una trattorietta a Branca, frazione di Gubbio, manifesto fatto di disegni a stampa colorati che rappresentano gli scorci più salienti della varie tappe del trenino e per il Borgo ci sono uno scorcio, visto dalla vecchie sede della pinacoteca, del comune, del duomo e di piazza Torre di Berta con ancora il disegno della torre, nonché una rappresentazione della Resurrezione di Piero. Ma tu guarda la coincidenze, guardi quei disegni, ti vengono in mente i ricordi dei racconti dei nonni e della mamma sulla ferrovia e, dopo poco tu pubblichi il tuo m’arcordo sull’argomento.
Un m’ arcordo veramente bello, con leggende, ora direbbero metropolitane, come quella che in salita si faceva prima ad andare a piedi, il che giustifica quanto mia mamma mi diceva e cioé che la Società Ferrovie Appennino Centrale voleva significare Senza Fretta Amici Cari.
Se poi desideri approfondire l’argomento ti consiglio un piccolo libro che qualche anno fà ho comperato da Enrico Polcri intitolato “La linea ferroviaria Arezzo – Sansepolcro” di Luigi Marino e Francesco Pizzolato, CIERRE Edizioni pieno di note tecniche sull’opera, che, come spesso succede in Italia, prima si manda in malora, poi ci si accorge che, potendola avere, risolverebbe molti problemi di collegamento evitando inquinamento, pericoli e incidenti connessi ai percorsi stradali. Ma tant è!
Al prossimo m’arcordo, ciao.
gennaio 27, 2011 alle 8:17 am |
MARCO NOFRI mi scrive:
Ciao Fausto
Un bellissimo m’arcordo questo
Aggiungo una cosa sul trenino e sulla val de gatti:
quando il mi babbo tornò dalla prigionia, dopo la guerra partigiana, arrivò ad arezzo e non trovò più il trenino, aveva fatto a piedi la strada da Bologna a Firenze, salvo un breve tratto in cui ricevette un passaggio da un militare americano con la jeep (la cosa gli creò dei pregiudizi inestirpabili sul fatto che gli americani di colore non sanno guidare..)e, attraversando così l’appennino vide ancora una volta i danni e le nefandezze della guerra. Aveva in mente un paesino , Pianoro, mi diceva che il muro più alto rimasto non superava il metro; poi arezzo devastata. Arrivato alla val de gatti ebbe un colpo al cuore… non si vedeva più la torre di berta. La torre si vedeva da ogni punto della valle. “come a Pianoro” pensò e fece gli ultimi km con l’angoscia dentro. Quando tornò a casa vide che avevano già messo la sua foto assieme a quella dello zio Goliardo e dello zio Nofrio (quest’ultimo morto durante la deportazione della famiglia)… vabbè storie vecchie che fai bene a ricordare nella speranza che non succedano mai più
Un abbraccio dal Trentino
Marco e Cristina.
gennaio 28, 2011 alle 12:42 PM |
El mi Angiolino m’ arcontava che quande andeva a Arezzo c’era ‘na salita, credo la Val de gatti, che facivono ‘n tempo a scendere rubbì ‘n grapolo d’uva e armontere…
Una curiosità: sono stato praticamente il liquidatore della ferrovia Arezzo Fossato di Vico per il tratto che interessava il distretto di Sansepolcro. Tutti i caselli ed i vari accessori compresa una galleria furono ceduti ai privati nel periodo in cui ero il funzionario addetto al Demanio presso l’Ufficio del Registro di Sansepolcro. Pensa che un signore (un mio collega Perito Agrario) comprò una galleria per farci un allevamento di “lumeche” che non ebbe gran fortuna. Allora quando vieni andiamo a vedere se possiamo accedere anche dall’esterno alla centrale elettrica di Montedoglio quella che aveva fatto la Buitoni… credo potrebbe essere un bel m’arcordo de sti tempi!