080 M’Arcordo… la porticina del Sor Arcangelo.
La porticina del Sor Arcangelo
La porticina del Sor Arcagelo era piccola e lui era grande e grosso, specie per un cittino picinino come me. Anche s’era grande non mi faceva paura, forse perché pensavo che non mi vedesse. La porticina era parte d’una porta, anzi d’un portone grandissimo. Il sor Arcangelo arrivava lentamente, sempre dietro al suo garzone, questi aveva una gran chiave, apriva la porticina ed entrava. Dal di dentro, dopo avere rimosso rumorosi catenacci e sbarre, apriva il gran portone ed il sor Arcangelo poteva entrare trionfante nel suo magazzino. Forse lui dalla porticina non ci sarebbe passato. Allora dalla strada io vedevo un grande androne sempre scuro, pieno di carretti, di tavoli coperti di fiaschi, di casse, di barili, tini e botti. Ora penso che una volta fosse stata una rimessa per carrozze, forse dei Goracci, che avevano poi trasformato in magazzino.
E pensare che questo aveva persino un numero: Via della Firenzuola 47. Noi si stava nella casa accanto, del sor Gianni Melandri, al 49. Questo lo notai solo quando imparai a leggere ed allora mi domandavo se portavano la posta anche li.
Non m’arcordo molto del Sor Arcangelo, credo fosse un Gabrielli, ed indossava sempre un vestito, con il gilet con la catena e l’orologio nel taschino, ed un immacabile cappello a larga tesa, forse una lobbia. Come ho giá detto era grande e grosso e quando poi al cinema vidi Stanlio e Ollio ero convinto che assomigliasse a quest’ultimo. M’arcontavano che aveva anche una salumeria per la Via Maestra, più o meno di rimpatto a dove ora c’é la libreria del Polcri. Sua moglie, la sora Rachele, stava dientro al banco e lui quasi mai, aveva alcuni poderi da seguire non poteva perder tempo a tagliare la mortadella. Mi raccontavano anche che quando un cliente le domandava:
“Sora Rachele com’é ‘sto prosciutto?”
“Buonissimo, ier sera l’ha mangiato anche ‘l mi’ Arcangelo.” Rispondeva lei prontamente e ripeteva questa frase in continuazione. Lui ere l’ultimo giudice della qualitá di tutti i prodotti.
Si raccontava anche, che una volta una donna le chiese:
“Sora Rachele ma com’é ’sto sapone? Fa la schiuma?”
“Buonissimo, ier sera l’ha mangiato anche ’l mi’ Arcangelo.”
Questa storia mi faceva tanto ridere, era la storia più buffa del mondo e chiedeva a mia nonna di riraccontarmela, anche se sapevo come andava a finire. Io immaginavo ’l sor Arcangelo che mangiava due fette di pane col sapone d’entro.
Al tempo della vendemmia il gran portone stava aperto. Arrivavano i carri coi bovi bianchi che poratvano le cassette dell’uva ed il garzone era indaffaratissimo: era la stagione per fare il vino. Il Sor Arcangelo sempre presente, controllava tutto, non gli sfuggiva niente. Qualche volta mi faceva cenno con la mano d’avvicinarmi ed anche se non sorrideva mai mi dava un grappolo d’uva.
Noi eravamo andati a vivere in Via della Firenzuala 49 nel 1942, dopo che il PNF (Partito Nazionale Fascista) ci ha sfrattato, dopo aver comprato il Palazzo delle Laudi da Serse Bartolomei, dove noi si stava prima e dove ero nato.
Via della Firenzuola é lunga, quasi la metá del paese, ma il mio territorio si limitava dall’arco del pisciatoio (che non c’é più, quello che é oggi lo slargo del comune) fino alla via del Fiorentino (Via Luca Pacioli). Poi si estendeva a Via Pettorondo con gli archetti e a Via della Castellina, dove c’erano più citti per giocare. Andare fino in fondo verso Porta Fiorentina era un’avventura, solo quando ero alle medie e divenni amico di Mario Palarchi, mi avventurai da quella parte, dopo tutto ero diventato grande.
Il nonno Barbino aveva un magazzino per le granaglie e sementa varia, più o meno a cento metri uscendo di casa sulla sinistra, vicino al palazzo del Perugini. Ho giá raccontato che nell’ufficio il nonno aveva un divano sgangherato dove faceva dei bei pisolini quando fuori era afoso.
Proprio di rimpettaio alla nostra porta c’era un altro gran portone, faceva parte della complessa struttura del palazzo Nomi, quello con l’ingresso principale in via degli Aggiunti, dove abitava l’avvocato Federico con la sua famiglia. In quindici anni che ho vissuto li non l’ho mai visto aprire. Sopra il tetto del palazzo Nomi c’era un gran terrazzo coperto che potevo ben osservare dal mio.
L’avvocato, m’arcotava il babbo, era stato ufficiale d’artiglieria pesante durante la Grande Guerra ed era interessato, ora diremmo ossesionato, nella riforma monetaria. Secondo lui la ragione principale della grande crisi economica del 1929 era dovuta all’uso dell’oro come unitá di valore cambio della carta moneta. Lui aveva scritto trattati d’economia promuovendo la raz-moneta (credo che la chiamassa così) che come base del valore avrebbe usato vari metalli utili, affermava l’avvocato, come il ferro, il rame, il piombo. In questa maniera avremmo stabilizzato l’economia mondiale.
Il babbo ne parlava bene, ma spesso cercava d’evitarlo.
“Se ti blocca sei finito, ti attacca un bottone e per sganciarti non é facile. Gli piace parlare.”
Si raccontava d’un celebre incontro dell’avvocato con la Sig.na Massa, anche lei avvocato ed anhe lei ben rinomata chiacchierona, all’angolo di via Pettorotondo: si narra che rimasero in piedi discutendo per più di quattro ore.
L’avvocato aveva una sorella, una zitella che raramente si avventurava fuori di casa, non m’arcordo come si chiamasse, ma certe volte mi invitava col mio amico Piero Melandri e ci offriva dei biscottini. Viveva in un suo appartamento che odorava di vecchio e di stantio, sembre scuro per la gran tende sempre tirate. Ripensandoci credo che non fosse cambiato nulla da più di cent’anni. Ci faceva vedere delle pistole antiche, e quella fu la prima volta che vidi un acciarino a pietra e ci disse come funzionava.
Il palazzo Nomi nel lato che dava verso via della Firenzuola aveva un altra porta. Da questa si accedeva ad alcuni appartamenti dati in affito.
Ed in uno di questi viveva l’ammalata. Era una ragazza bella, bionda, magrissima, pallida, forse avrá avuto 25 anni e viveva con la madre e la sorella. La vedevo spesso alla finestra e lei mi sorrideva. Anche la sorella era bella ma aveva i capelli nerissimi, poi un giorno seppi che s’era sposata ed era subito partita per il Venezuela con la nave, un posto lontanissimo. Ritornammo dal mare, penso ch’era l’estate del ‘53, ed i vicini ci dissero ch’era morta e che l’avevano sentita gridare:
“Non voglio morire! Non voglio morire!” Mi sentii tanto triste ed impaurito. Fino allora credevo che solo i vecchi morissero, i giovani muoino solo se vanno alla guerra. La notte mi venivano gl’incubi che mi sarei ammalato, che avrei sputato sangue, non c’era scampo, sarei morto come quella poverina: di tubercolosi.
Ancora nella mia generazione c’era il terrore di questa malattia che aveva fatto così tante vittime in un passato non lontano e che non era stata ancora debellata.
“Attento, sei sudato, c’é la corrente!” era la tipica ammonizione della mamma o della nonna.
Se sei sudato e ti raffreddi ti viene il raffreddore, questo se non ti curi diventa bronchite che facilmente degenera in una polminite. La pleurite é dietro l’angolo ed alla fine diventa tubercolosi, e da questa non c’é scampo. Attenti alla corrente!
È stato interessante poi scoprire come tutto questo fosse comune anche d’altre parti. Se mia moglie bambina correva e sudava sua nonna, normanna di Le Havre, la sgridava:
“Tu vas te refroidir, tu vas attrapes du mal!”
Ed il rischio di tutta una serie di malanni terribili le sarebbero piombati addosso.
La mia altra grande paura di quei tempi, inizio anni 50, era la poliomelite. La temutissima paralisi infantile. Questa arrivava verso giugno, almeno così dicevano, con il caldo. La mamma non voleva che andassi al cinema, c’era troppa gente, c’era il terrore del contagio. Potevo andare solo al cinema Biturgia, quello al Piazzone, all’aperto.
Con chi giocavo? Il mio migliore amico ai tempi della seconda elementare, e mi sembra d’averlo arcontato, era Alberto. E la ragione di questa fu provata in un pensierino, dove scrissi:
”Il mio migliore amico é Alberto, perché ci faccio a cazzotti tutti i giorni.”
Non vi sembra una valida ragione?
Alberto era figlio d’un finaziere (una fiamma gialla e non un grande banchiere) e stava in Via della Castellina.
Gli altri amici, e quelli con cui passavo più tempo, erano Gianluigi e Piero Melandri e noi si stava nella stessa casa. Con loro giocavo nell’orto e la mamma era contenta, dalla finestra di cucina controllava ogni movimento.
In via della Castellina corta e stretta ma c’erano più citti, quello era un bel posto per giocare. Allora partivo da casa e dopo aver girato per via Pettorotondo arrivavo all’angolo della Castellina. E proprio in quell’angolo c’era la Rosina pettinatrice, come la chiamava la mamma, oggi si direbbe parrucchiera. Mi ricordo l’odore che usciva dal salone, ma come tutti gli odori é difficile da descrivere. C’erano dei marchingegni strani dove le donne mettevano la testa dopo aver fatto la permanente. Me le ricordo tutte allineate sotto quei caschi per farsi asciugare i capelli. Sortivano belle e radianti pronte per essere ammirate.
Poi c’era la bottega de Borghino, lo Zoppino, e de la su moglie che se chiamava Ida. Oggi quel negozio sarebbe chiuso immediatamente, diciamo che la pulizia lasciava a desiderare. La mamma diceva che lei da Borghino non ci avrebbe comprato neanche una scatoletta di tonno. Il catino dove il venerdi metteveno a mollo il baccalá era grigia, sembrava non fosse stato sciacquato da anni. Mi sembra anche che questa coppia litigasse spesso e che si tiravano dietro mestoli ed altri oggetti vari.
All’angolo della Via Maestra c’era la macelleria Gennaioli e quando la Maria faceva il migliaccio (sanguinaccio) nella gran teglia di rame lo metteva in bella mostra fuori della porta. Allora chiedevo i soldi a la mi mamma per comprermene ‘na fetta. Mi sembra ancora d’arcordare l’odore della carta gialla con cui l’involtavano. Il giorno che facevano la porchetta compariva il Fabbriciani de Porta Romana che con voce tonante berciava:
“Donne, interiori de porchetta, portate la marmitta!”
Ritorniamo in via della Firenzuola, all’angolo con Pettorotondo ci stava il Canosci, un incallito zitellone, che poi da vecchio si sposó, e sembrava che tutti fossero contenti di questo storico evento. Anche lui aveva un magazzino con un portone, ma non era grande come quello del Sor Arcangelo. Credo che quello fosse lo stesso stabile dove i Buitoni cominciarono a far la pasta nel 1827.
Proprio davanti al Canosci c’era il laboratorio del Landini falegname, era il fratello del Landini operatore al cinema Dante. Quello che mi pareva strano era il fatto che nel dietro di questo c’era un tenda e dietro c’era il letto dove lui e la moglie dormivano. Poi d’improvviso se andarono lontano. Si diceva che il Landini era diventato ricco: aveva iniziato un’attivitá di veggente, di stregone e cavava le malie. Aveva appreso quest’arte magica da un suo noto parente, ma non m’arcordo il nome. Ma poi chissá quanto c’é di vero in questa storia.
M’arcordo anche una coppia, mi sembra si chiamassero Brizzi ed il marito era il fattore del Goracci. E fu così che conobbi Benedetto. Questi non stava per la Firenzuola, ma un giorno lo accompagnarono a casa mia, penso ch’ero in prima media. C’era una zia che gli faceva da mamma, la sua era morta. Io dovevo studiare con lui, io dovevo stimolarlo a studiare un po’ di più perché lui non aveva proprio voglia di far niente. Era ripetente, più grande di me ed ancora non aveva imparato neanche la prima declinazione: rosa, rosæ, rosæ… Quella fu la prima e l’ultima volta che studiammo assieme.
Il primo agosto del ’57 tutto quel piccolo mondo finì, ero anche diventato più grande ed i miei orizzonti s’erano allargati. Lasciammo via della Firenzuala ed andammo a vivere in un appartamento quasi in collina, dietro lo stablimento Buitoni.
Ero felicissimo, andavo a stare vicino alla citta che me piaceva tanto.
7 luglio 2010, Marblehead, MA USA
Fausto Braganti
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