024 M’Arcordo…… quando s’andava al camposanto. (prima visita)

 

Una volta ho sentito questa:

“Se fai la cattiva non te porto al camposanto!” Questo indicava tutto un modo di pensare: se la nonna ti portava con se dovevi esser contento, era una specie di ricompensa.

Quando ero picino avevo una vaga idea della morte. I miei mi avevano sempre portato con loro quando moriva qualche parente o qualche amico. Da sempre avevo visto morti bianchissimi sul catafalco fatto in casa. Li guardavo e poi pensavo che sarebbero diventati scheletri e questo mi faceva paura. Avevo visto nei libri dei disegni, specie quello della “morte” tutta nera con una gran falce. Ma nell’insieme il tutto mi sembrava lontano, come se mi sentissi immortale; la morte era un problema dei vecchi, forse perchè non avevo mai visto un morto giovane. Certe volte pensavo ai nonni ed allora mi sentivo triste, e speravo che loro avrebbero vissuto fino cent’anni.

Poi c’era il funerale con la messa in chiesa, con la bara al centro della navata; mi sembrava che in duomo l’evento fosse sempre più solenne. Il prete girava intorno al morto ed affumicava tutti con l’incenso; quell’odore mi piaceva e poi cantavano il Dies Irae e la chiesa rimbobava. Mi è stato detto che questo inno fu poi soppresso con il Vaticano Secondo. Ripensandoci penso che il tutto avesse un po’ d’un rito pagano.

Avevo sentito dire che ‘na volta i morti li mettevono ‘n chiesa. Quando entravo nel cortile di San Francesco mi soffermavo sempre a leggere le lapidi alle pareti sotto il colonnato. Cercavo di immaginare chi fossero e come erano da vivi. In quelle lapidi non c’erano le foto ovali porcellanate. Mi dicevano anche che gli unici che venivano ancora seppelliti in chiesa erano i vescovi, i cardinali ed i papi, ma questi son pochini.

Credo che Napoleone, nella sua mania di cambiar tutto, fu quello che abolì i camposanti ed inventó i cimiteri, per ragioni igieniche e forse per togliere ai preti il monopolio della morte. Da noi arrivò molto più tardi, dopo l’unitá d’Italia. Nessuno poteva essere più seppolito in chiesa, ma ogni comune doveva costruire, in delle aree specifiche fuori città, i nuovi cimiteri dove sistemare i morti. Quì c’era un posto per tutti, senza pregiudizi, inclusi i condannati, le prostitute, gli ebrei e i protestanti, che prima non potevano essere sepolti in chiesa. Subito anche i cimiteri cominciarono a ghettizzare i morti. I signori si fecero fare sontuose cappelle e per gli altri si creó subito una graduatoria di tumolazioni varie, tombini e piccionaie, fino a quelli che andavano sotto terra, in genere i più poveri e quelli che volevano dimostrare un loro spartano distacco dai beni terrestri. I miei per tradizione sono andati quasi tutti sotto terra.

C’era una distinzione di classe al momento del funerale. Anche se la morte, come diceva Totó, era ‘na livella, c’erano quelli che non volevano essere livellati al paro degli altri, cosi c’erano due carri funebri tirati dai cavalli, uno per i ricchi ed uno per i poveri. In casi eccezionali, come la morte prematura d’un giovane, gli amici lo portavano a spalla. Ricordo che quando morì Mario, un mio compagno di scuola, in un incidente automibilistico, ci fu una vera gara fra noi tutti per poter portare la sua bara.

L’unico funerale che ricordo con carro dei poveri tirato dal cavallo fu quello della zi’ Sunta, la sorella del mi’ nonno Barbino. La zi’ Sunta era religiosissima e serva di Maria, ed era conosciuta anche come la Pieve Vecchia, nome che veniva dal podere (oggi l’Oroscopo) dove abitava. La storia della zia é lunga, e forse scriveró un m’arcordo tutto per lei.

Il tipicolo funerale cominciava, credo che sia ancora così, con il prete in testa seguito dai suoi chierichetti, qualche volta c’erano le orfanelle, poi veniva il carro funebre col il cocchiere a cassetta, tutto di nero vestito. Non mi ricordo se le corone di fiori venivano prima o dopo il carro. Dietro il feretro seguiva la famiglia e gli amici più intimi. Se c’erano stati degli screzi fra parenti questo era il momento di rifar pace e si invitavano tutti a stare assieme nel cordoglio. Il resto seguiva; se il deceduto era un uomo prima venivano gli uomini e se era una donna le donne sarebbero venute avanti. Il numero dei partecipanti era una specie di termometro che indicava quanto la persona fosse stata amata e rispettata. Se c’era anche la banda allora era il massimo. Con i cavalli c’era un problema tecnico: le cacche, bisognava stare attenti che non comparissero all’improviso da sotto il carro che scorreva via. In tal caso si notava che il corteo si biforcava per evitare l’ostacolo per poi ricongiursici. Il corteo funebre, uscito di chiesa, si muoveva lentamente lungo la Via Maestra e i bottegai chiudevano i negozi, i clienti uscivano e tutti in silenzio porgevano il loro ultimo rispetto al morto. Allora quasi tutti gli uomini portavana il cappello e se lo cavavano.

Poi quelli della Confraternita della Misericordia, che gestiva questo pubblico servizio, decisero di motorizzarsi e dopo aver fatto un gran colletta, comprarono un nuovo furgone apposta per portare morti. Credo che successe verso il 1950. Era un segno che la modernità era arrivata al Borgo e con questa  i congiunti dell’estinto, invece di correre il rischio di pestare su una cacca fresca, potevano esser certi d’essere semiasfissiati dai fumi dello scaricodel motore.

Uno dei vecchi carri funebri, quello dei ricchi, rimase parcheggiato per anni nella strada di sotto San Rocco. Poi un giorno spari. C’é forse qualcuno che sa che fine abbia fatto? Entro la chiesa, quella de sotto, c’era, e forse c’e ancora, una lettiga; mi sembra fosse un specie di carretto a due ruote, per tarsportare i malati e forse anche i morti, non so.

A Castello credo che quello coi cavalli è durato de piu’. Quando ero al liceo morì la moglie del Prof. Bistarelli e andammo al funerale a Cerbara. Il cocchiere seduto a cassetta era tutto impettito e sfoggiava una gran tuba.

Poi c’erano i funerali senza preti. Erano eventi che assumevano un vero signifacoto politico e far vedere al resto del Borgo che c’erano anche loro, gli anticlericali e i liberi pensatori. Una domenica mattina del luglio del 1959, ero al campeggio dietro Le Balze, sotto la Cella di Sant’Albrico, quando mi son visto ‘l mi’ babbo davanti. Fui molto sorpreso. Mi era venuto a prendere perché era morto ‘l Sor Camillo e non potevo mancare al suo funerale quel pomeriggio. Fu una grande manifestazione delle forze laiche toscane ed umbre di quel tempo con stendardi e bandiere. ‘l Sor Camillo, che aveva quasi 90 anni, teneva sempre in tasca della giacca un lettera in cui dichiarava che, in caso di lunga malattia e nel caso si fosse rincoglionito, come diceva lui, da permetter al prete di venire al suo capezzale, questo ‘n contava: il suo sarebbe stato un funerale laico. L’ho sentito dire al mi’ babbo più d’una volta: “Sor Braganti, me raccomando, la lettera!” e con la mano si batteva gentilmente sul petto all’altezza della tasca interna, per indicare dove la teneva. Poi aggiungeva dei commenti che non credo possa trascrivere. Alla fine mori rapidamente penso d’un attacco di cuore, così non corse nessun pericolo che la sua volontà non fosse fatta. 

Si raccontava anche d’un funerale d’un vecchio Borghese, che volle andare al cimitero da solo, senza nessuna cerimonia e senza seguito, ed il cocchiere per l’occasione aveva messo i cavalli al galoppo. Aveva inoltre lasciato una gran mancia ai becchini perché gli facessero una buca profonda almeno due metri, anche se la sua famiglia aveva una cappella. Si raccontva anche che avesse detto:

“Così ‘n me rompe i coglioni nessuno!”

Spero solo che sia vera.

Poi c’era la lapide del libero pensatore Guglielmo Garzi. Sin da bambino l’avevo imparata a memoria. ‘l babbo mi aveva aiutato a capire quelle starne parole.

Un giorno, durante una delle mie visite al Borgo, ricevetti una telefonata inaspettata,. Era Vinicio Franceschini, meglio conosciuto come “il Barone”, uno dei custodi del cimitero. Fui molto sorpreso. Mi dissi che mi aveva visto per la via, e sapendo come la pensavo, aggiunse che stavano rifacendo una parte del cimitero e quanto prima avrebbero tolto la bara del Garzi. Non c’erano parenti del defunto e se nessuno era interssato, la lapide sarebbe gettata via. Lo ringrazia e andai subito a far delle foto. Poi cercai Piero Olivieri e gli dissi di quello che sarebbe successo. La lapide è stata salvata.

Il Barone era un istituzione, e come mi ha ricordato Giovanni, portava i capelli impomatati ed i baffetti da sparviero e nei modi di fare era un vero signore. Fra le tante storia che si raccontavano c’era quella d’una signora che si lamentava con lui per il lumino della tomba del marito che non funzionava. Lui le rispose:

“Non si preoccupi signora, se al su’ marito gni da’ noia stere al buio sta’ sera andrá a veglia da qualche vicino”.

Ho un’altra storia del Barone: la volta che mi ha aiutato da lontano e questo e’ successo alcuni anni dopo che sono arrivato in America. A quel tempo, quando la mi’ mamma era viva, ci si telefonava tutte le domaniche, così fui molto sorpreso ed anche preuccupato quando risposi al telefono nel mezzo della settimana e senti la  sua voce con un tono agitato.

“Ho trovato ‘na scatola piena d’ossi de morto in cantina! Ma cos’è?” Più parlava e più diventava agitata, come se avessi nascosto un cadavere. Ripensandoci forse aveva ragione. In fondo la storia era molto più semplice di quello che sembrava: me n’ero scordato.  

Non so chi fosse stato il primo a raccogliore tutti quegli ossi. Molti degli studenti di medicina del Borgo avevano usato prima di me quella scatola quando dovevano studiare anotomia. Passava poi da uno all’altro e così quando io e Gianfranco, studenti di farmacia, ci preparavamo per l’esame qualcuno ce la diede. Dopo l’esame la misi in cantina e cadde nel dimenticatoio, fino a quando, una quindicina d’anni dopo, la mi’ mamma la ritrovò. Dopo la mia spiegazione la mamma era più tranquilla anche se faci dei commenti che i morti dovevano essere rispettati e poi:

“E mo’ che faccio?”

Per un po’ non sapevo cosa dire, ma poi pensai al Barone e dissi a mia madre di parlare con lui. Lui fu gentilissimo e andò a casa mia a prendere la scatola e promise a mia madre che avrebbe trattato quegli ossi con rispetto, molto di più di quello che avevo dimostrato io.

 

Fine della prima visita, prometto, se non fate i cativi, ve c’arporto! 

28 ottobre 2008, Marblehead, MA USA 

                                                                                       

I  vostri commenti e correzioni a possibili inesattezze, scherzi della memoria, saranno apprezzati. Assieme possiamo ricostruire questo grande mosaico borghese.

Mi raccomando, scrivete!

 

Fausto Braganti      

ftbraganti@verizon.net

 

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